Anja Zimmermann / Il seno: ancora un problema politico

Anja Zimmermann, Il seno. Storia culturale di una parte politica del corpo, tr. di Silvia Albesano, Bollati Boringhieri, euro 22,00 stampa, euro 15,99 epub

In uno dei suoi saggi più famosi, il paleontologo Stephen Jay Gould cercava di rispondere alla domanda perché anche gli uomini sono dotati di capezzoli, dove quell’ “anche” sottintende che i capezzoli, e dunque il seno, siano attributi principalmente femminili, avendo soltanto nella donna una evidente funzione biologica ed evolutiva. Rimarcava, Jay Gould, la debolezza della domanda in sé, che non tiene conto del modo in cui gli organismi (maschile e femminile) si sono formati. Mettendo da parte Jay Gould e il piacere di leggerlo, cercare una spiegazione scientifica dell’esistenza del seno e dei capezzoli dell’uomo è un’azione che parte dal presupposto che il seno sia prerogativa ed essenza del femminile. Un presupposto culturale, come racconta in modo avvincente Anja Zimmermann con dovizia di riferimenti alla storia sociale, politica, dei costumi, della medicina, dell’arte e dei movimenti femministi.

La disparità di trattamento tra capezzolo maschile e femminile – il primo completamente sdoganato, il secondo invece da celare alla vista – deriva dal fatto che il seno femminile riveste un grande interesse collettivo e politico. La storia del seno è in continua dialettica tra coprire e scoprire, contraddizioni e ribaltamenti di prospettiva, privato e sconfinamenti nel pubblico. Oggetto erotico feticizzato e nello stesso tempo simbolo di quella che si è supposto essere la quintessenza della femminilità, ovvero la maternità esplicata nell’allattamento, il seno è ingabbiato da sempre in particolari capi di abbigliamento che di volta in volta tendono a nasconderlo e nello stesso tempo a evidenziarlo: lingerie e abbigliamento erotico, il reggiseno – che copre, contiene e sostiene (dove il presupposto è che il seno necessiti di essere coperto e contenuto, quindi in qualche modo modificato per renderne appropriata la vista) – ma soprattutto il corsetto, un tormento sopportato per secoli dalle donne: inizialmente (sin dal XIII-XIV secolo) funzionale ad appiattire il seno, ma poi soprattutto a spingerlo in alto mostrandolo sodo e debitamente scollato. Fino agli inizi dell’Ottocento, le signore potevano indossare il corsetto solo con l’aiuto delle domestiche, era quindi un capo non adatto a tutte. Intorno al 1840 fu modificato in modo che la parte anteriore si potesse aprire e chiudere, e quindi potesse essere infilato in autonomia.

Di lì a pochi anni, però, iniziarono i dibattiti per l’abolizione di questo capo che danneggiava la gabbia toracica. Anche perché a quel punto, ormai, il seno poteva essere artificialmente modificato in altri modi, con protesi e interventi chirurgici (la prima protesi mammaria, utilizzata per la ricostruzione del seno dopo una mastectomia, fu brevettata negli Stati Uniti nel 1873). Una storia, quella della chirurgia al seno, che segue la banderuola del gusto, per cui se fino alla metà del XX secolo gli interventi erano soprattutto di riduzione, perché un seno grande era ritenuto primitivo, successivamente la tendenza è stata invertita: un seno prosperoso è generalmente considerato più attraente, e pur di soddisfare quel male gaze ancora oggi molte donne che non possono permettersi un intervento si fanno fare delle iniezioni di silicone, ormai illegali perché potenzialmente molto dannose per la salute.

L’esposizione del seno non è appropriata, ed è addirittura sanzionabile, tranne che nell’iconografia femminile legittima per eccellenza, quella della Vergine Maria, che con il seno allattante è una delle immagini predilette dalla storia dell’arte cristiana (coincidente con la storia dell’arte europea in toto, per alcuni secoli). La donna che allatta attualmente è vista come naturale, ma sino alla prima età moderna nella società non proletaria erano le balie ad allattare i bambini (con tutta una tradizione non minimale, sino alla prima metà del XIX secolo, di balie animali, soprattutto capre), per cui si può sostenere che “l’amore materno sia stato descritto e dunque inventato solo alla fine del XVIII secolo” ma anche che la donna allattante non era affatto un ideale di femminilità. Un deciso sostenitore pro-allattamento è stato Linneo, il grande tassonomista svedese, che tra le altre cose ha inventato l’insieme dei Mammiferi, da mammalia. Interessante è la riflessione che i mammiferi come gruppo e come concetto non erano affatto scontati; in precedenza si parlava di vertebrati, che presentano diversi tratti in comune tra i quali Linneo scelse il seno e lo pose al centro della nomenclatura. Oggi, pur in una fase nella quale l’allattamento è visto come un elemento altamente positivo nella crescita dei bambini e in generale dell’essere madre, c’è chi si scandalizza quando una donna allatta in pubblico, dove il problema ovviamente è la vista del seno.

Seno che assai spesso è stato intravisto, visto di scorcio o esposto senza pudore nella storia dell’arte. Ma quasi sempre la rappresentazione non è realistica: due semisfere perfette, un modello derivato da quello della Venere classica, ideale di bellezza persistito a lungo nella cultura occidentale (bel oltre, ovviamente, la fede nella divinità romana). Bellezza e pudicizia, perché la Venere si copre la vulva con una mano e con l’altra talvolta un seno. È consapevole dello sguardo dell’osservatore e sente di doversi nascondere, dunque non può fare nient’altro, non può agire. Il corpo femminile nella storia dell’arte viene quasi sempre mostrato come guardato, un tema sul quale John Berger ha scritto pagine memorabili.

L’uomo dell’antichità classica, per contro, mostra liberamente il proprio corpo, tenendo le braccia sollevate o lanciando discoboli. Dalla posa e dall’atteggiamento di queste statue archetipe deriva non solo il codice dei buoni costumi della modernità occidentale ma buona parte della storia del patriarcato, perché come osserva acutamente Zimmermann, «da posture standardizzate discendono rapidamente anche concezioni standardizzate della femminilità e della mascolinità». Le pagine dedicate all’ideale rappresentato da Venere sono forse le più stimolanti del saggio. Quando in Francia, nel 1864, fu ritrovata la prima statuina preistorica, del Paleolitico, raffigurante una donna nuda, essa fu chiamata dallo scopritore “Venere impudica”, perché non nascondeva il sesso né il seno. Invece di riconoscere in questa immagine la possibilità di altri modelli femminili, questa diversa rappresentazione della donna fu inclusa nel modello della Venere: nel suo opposto, in una Venere altra. Non erano possibili altri ruoli né corpi, al di fuori di quella norma. Nella stessa direzione è da intendere la “Venere ottentotta”, una donna nata schiava in Africa australe, nella colonia olandese del Capo di Buona Speranza, portata a Londra nel 1810; si chiamava Saartjie Baartman e aveva un fisico che destava stupore e ribrezzo, con cosce e sedere molto prosperosi e una ipertrofia degli attributi sessuali; divenne un fenomeno da baraccone e dopo la morte a Parigi nel 1815 fu sezionata e studiata da George Cuvier.

“Venere” incarnava un entroterra di bellezza, pudicizia (e per opposizione, di impudicizia) e tutto un universo di fantasie erotiche e porno maschili. Resta il dubbio che lo sguardo maschile condizioni anche molti dei casi in cui il seno è esposto dalle donne come provocazione.

Paladine dell’uso del seno per una protesta politica sono le Femen, attiviste ucraine che dal 2008 si mostrano in situazione ed eventi con la parte superiore del corpo scoperta e spesso ricoperta di scritte e messaggi. L’autrice nota che la rappresentazione visiva di Femen sembra uniformata a una certa e poco originale idea di donna: le attiviste sono sempre giovani e belle; le loro pose gli abiti e i capelli sciolti rimandano a un ideale femminile sexy; le foto diffuse sui social hanno i capezzoli pixelati, per accordarsi con le norme misogine di Facebook e Instagram; infine, le foto delle donne che protestano e poi vengono portate via, riprendono filoni iconografici di lunga data e durata (il pathos femminile, dalla menade all’isterica). Scrive Zimmermann: «Ciò significa che le foto ora mostrate a più riprese dai media, delle attiviste che vengono trascinate via per lo più da uomini, non sono affatto istantanee scattate per caso, che avrebbero anche potuto essere completamente diverse. Le foto della protesta riattivano immagini notevolmente più antiche e sono selezionate in base a questo schema».

Un seno femminile del tutto nuovo, de-oggettivizzato e invisibile nella sfera del pubblico, potrà esistere soltanto al di fuori dei regimi visivi, e quindi di potere, standardizzati e tossici; un seno di qualsiasi genere, piccolo grande cadente sodo, con o senza reggiseno, finalmente privato.