Angélica Gorodischer / Quando l’Impero è weird

Angélica Gorodischer, Kalpa Imperial, tr. Giulia Zavagna, Rina Edizioni, pp. 344, euro18,00 stampa

Come spesso accade con i comptes rendus – “conti” che, in ultima istanza, non si possono rendere del tutto, specie se si dà notizia di una creazione letteraria – sarebbe cosa buona e giusta inserire Kalpa Imperial in un suo contesto e in una sua genealogia. E ci sono, in effetti, alcuni dati che si rivelano certamente utili per iniziare a mettere a fuoco la prima traduzione italiana in volume dell’opera di Gorodischer – precedentemente inedita, in Italia, eccezion fatta per la recente, e imprescindibile, antologia Le visionarie. Fantascienza, fantasy e femminismo (Nero Editions, 2018) a cura dei coniugi VanderMeer.

Si tratta, inoltre, di elementi contenuti, e articolati in tutta la loro complessità, nella bella introduzione al libro di Loris Tassi, ma vale la pena riportarli, molto sinteticamente, anche qui. Innanzitutto, Kalpa Imperial è senza dubbio il libro più importante di Angelica Gorodischer, una pubblicazione da molti ritenuta di culto nell’ambito della letteratura ispanoamericana del secondo Novecento. La traduzione italiana di Giulia Zavagna – il cui giro di frase è almeno tanto ammaliante quanto quello di Gorodischer, ricordando lo stile rapsodico di quei “cantastorie” che, effettivamente, popolano il libro – arriva circa vent’anni dopo la traduzione inglese, a firma di una certa Ursula K. Le Guin (2003), a sua volta distante di vent’anni dalla pubblicazione originale, nel 1983.

Già questa circolarità rituale, però, ci porta su altri sentieri e su altri livelli. Contesto e genealogia, infatti, non sono sufficienti per entrare nell’Impero dalle mille teste e dalle mille parole di Gorodischer, così com’è narrato in Kalpa Imperial: il kalpa, del resto, è unità di misura del tempo cosmico induista, basato sui cicli di evoluzione e involuzione dell’universo. È il “giorno di Brahma”, dalla lunghissima durata e dalla struttura uroborica, quella del serpente che, circolarmente, si mangia la coda: un’immagine del tempo che probabilmente non sarebbe dispiaciuta a Borges, ma che, attraversando idealmente varie culture, dà conto in modo specifico del gioco con la storia e la geografia universale di Gorodischer. Un Impero che è probabilmente dappertutto, e al tempo stesso unicamente negli occhi di chi legge.

Fra storia e geografia, forse è più di tutto la storia a essere un problema, o meglio a “fare problema” – come hanno già segnalato lettori molto attenti, come Livio Santoro (per Quaderni d’altri tempi) o Maria Teresa Rovitto (per Poetarum Silva). Rovitto, in particolare, ha chiamato in causa un altro monumentale scrittore argentino, Ricardo Piglia, e il suo saggio “Finzione e politica nella letteratura argentina” (in Critica e finzione, Mimesis, 2018): “La letteratura costruisce la storia di un mondo perduto. Il romanzo non riflette nessuna società, se non come negazione o contro-realtà […] Se la politica è l’arte del possibile, l’arte che deve mettere un punto finale, allora la letteratura è la sua antitesi”. Piglia parlava, in primo luogo, di Macedonio Fernández, ma Rovitto sottolinea giustamente come si tratti di qualcosa di vero anche nel caso di Gorodischer; sempre ricorrendo alle parole di Piglia, infatti: “Questa voce sottile afferma l’antipolitica, la contro-realtà, lo spazio femminile, i racconti del cacique ranquel, i rhînir di Borges, i filosofi del quartiere di Marechal, la rosa di rame di Roberto Arlt […] La tradizione di questa politica che chiede l’impossibile è l’unica che ci giustifica”.

È antipolitica ed è anche anti-Storia, ma Kalpa Imperial viene comunque pubblicato – come ricorda, invece, Santoro – sul finire della dittatura argentina, e questo non può che avere un peso nella “richiesta di impossibile” appena citata: l’anti-Storia apre, infine, la propria porta alle storie, e in ultima istanza alla Storia, allo scopo di dire la verità. “Perché è ai cantastorie che tocca dire la verità2, si legge nel libro, “sebbene la verità non abbia il fulgore dell’invenzione ma un’altra bellezza, quella che gli sciocchi definiscono miserabile o meschina”.

Mentre si fronteggia l’idra imperiale, la porta si apre continuamente, e la bellezza non è affatto meschina; accade ogni volta che la narrazione fluviale, l’elemento weird o l’amore per l’enumerazione caotica già postmoderna lasciano spazio a squarci gnomici che invitano a rivedere il tutto – tutto quello che si è letto – con occhi nuovi. Intanto, però, l’idra imperiale resta sempre al suo posto – un posto che, peraltro, è nei nostri occhi – con un riferimento all’Impero che è dunque sempre presente e ineludibile, anche se apparentemente depotenziato nei suoi significati, appunto, storici e politici.

Ecco allora rivelarsi il gioco dell’impossibile che diventa possibile, scardinando con forza utopica le stesse porte della visione e scontrandosi con la resilienza del potere, grazie alla consapevolezza, analogamente paradossale, che una storia è “vera e falsa come tutto ciò che raccontano gli uomini”. Ma è poi una donna – e questo sia detto senza banali appiattimenti sul riferimento identitario, bensì per il gusto di aprire un’altra porta importante, nell’interpretazione di questo romanzo – come Gorodischer che ha saputo mettere sulla pagina questa maieutica weird dell’utopia, facendone grande letteratura.