I romanzi autobiografici corrono il rischio, a volte, di risultare troppo autoreferenziali. L’attenzione dell’autore troppo rivolta su di sé può non coinvolgere il lettore e rendere la vicenda distaccata dalla realtà, con un’ambientazione di corto respiro e quasi claustrofobica. Non è il caso di Effimeri, tradotto magistralmente da Marco Drago, in cui Andrew O’Hagan racconta di sé senza mai perdere di vista i tempi in cui si svolge l’azione e i personaggi che ruotano intorno al protagonista. Giocando tra realtà e fiction, è diviso in due parti: la prima si svolge nel 1986 quando un gruppo di ragazzi scozzesi decidono di andare a Manchester a un festival musicale. James, detto Noodles, diciotto anni con una famiglia assente e Tully, venti anni, operaio saldatore con i genitori in crisi dopo che il padre ha perso il lavoro, sono amici fraterni. Sullo sfondo, ma non troppo, una Glasgow triste e tetra, che sta vivendo l’apice della crisi economica e sociale provocata dall’offensiva liberista del governo conservatore guidato da Margareth Thatcher, la “lady di ferro”. L’attacco al welfare e la privatizzazione selvaggia mietono vittime nella classe operaia, con una forza inaudita tra l’indifferenza generale che non risparmierà morti durante le proteste: la cessione delle miniere ai privati colpisce i minatori, con migliaia di esuberi che il governo non garantirà in nessun modo lasciando migliaia di famiglie sul lastrico.
A un certo punto James si trasferisce a casa di Tully mentre una professoressa lo aiuta a iscriversi all’Università, conscia del suo talento letterario. Il gruppo di amici decide per la trasferta a Manchester: i preparativi, il viaggio e il concerto saranno momenti memorabili che cementeranno ancora di più l’amicizia tra i due e che rimarranno sempre vivi nelle loro memorie. Un inno alla gioventù, a quell’età, come dice il protagonista, in cui si sanno cose che poi non si sapranno più, la celebrazione di un’amicizia che resisterà alle insidie del tempo.
La seconda parte ci porta nel 2017, poco più di trenta anni più tardi. Di questo periodo intermedio non c’è traccia nel romanzo, ma nonostante James si sia trasferito a Londra e Tully sia rimasto a Glasgow, l’amicizia tra i due uomini che condividevano la passione per il calcio, la musica, la letteratura e il cinema – spesso le loro conversazioni sono costruite con citazioni di film –, è rimasta immutata. Tully, che dopo aver abbandonato il lavoro di operaio ha ricominciato gli studi e adesso è insegnante, telefona all’amico rivelandogli di avere un male incurabile che non gli concederà troppo tempo. E se prima era Tully a essere il trascinatore della coppia, estroverso e deciso, ironico e provocatorio, adesso tocca a James prendere in mano la situazione e guidare l’amico nel suo tragico percorso. Hanno entrambi delle compagne che amano, lavori gratificanti e un avvenire che sembrava essere sereno. Il ritmo narrativo cambia, l’esuberanza dei protagonisti accompagnati da una scrittura dinamica e immediata lascia il posto a uno stile più riflessivo, come seguisse l’avanzare dell’età dei protagonisti. Tully chiede all’amico di aiutarlo, vuole una fine decorosa senza ridursi ad un mucchietto d’ossa, ma Anna, la sua compagna, non è d’accordo. Vuole che viva sperando in un miracolo e non vuole privarsi di lui prima del tempo. E qui si introducono rapporti interpersonali, contrasti, questioni etiche difficili da dirimere, che solo con l’aiuto di Iona, la sua compagna, e altri incontri più o meno fortuiti porteranno James, con fatica, a prendere decisioni molto difficili.
Un romanzo profondo, che parla della vita e della morte, delle svariate sensibilità delle persone, di affetti e sentimenti contrastanti, di come le nostre convinzioni a volte cozzino contro volontà diverse. Di come sia difficile affrontare temi esistenziali: la scelta etica migliore che possiamo fare, forse, è il rispetto della volontà altrui.