Andrej Platonov / Monumento alla vacuità

Andrej Platonov, Lo Sterro, cura Ivan Verč, minimum fax, pag. 272, euro14,00 stampa, euro 8,00 epub

Andrej Platonov scrive Kotlovàn tra il 1929 e il 1930. L’opera era apparsa in Italia nel ’69 come Nel grande cantiere (il Saggiatore) poi come Lo sterro (Marsilio, 1993), nella traduzione e con la curatela di Ivan Verč, la stessa che minimum fax ora ripubblica. A un anno dall’inizio del primo Piano Quinquennale e della collettivizzazione forzata delle campagne con cui Stalin – facendo proprie le vecchie tesi di Trotsky – intende porre fine al “settore contadino del capitalismo” e “eliminare i kulaki come classe”. Platonov, che l’anno prima ha visto il suo romanzo speculativo Chevengur bloccato dalla censura, perdendo anche l’appoggio di Massimo Gorki, torna con questo racconto lungo sul luogo del delitto. Lo sterro è infatti un’ispezione sulla felicità del proletariato e sullo stato del socialismo scientifico applicato alla società russa, effettuata da uno scrittore e ingegnere che si professa tuttora rivoluzionario. È la cartina al tornasole, eseguita con mezzi letterari, dell’Uomo Nuovo, propagandato per decenni dai cosmisti, alla cui visione ortopedica Platonov ha aderito in gioventù ma che ora giudica un errore. Il cantiere, le cui fondamenta sono continuamente ampliate in vista della futura proletarizzazione contadina, sono un’ovvia metafora dell’edificio socialista in costruzione permanente effettiva. “Ovvia”, in un senso più materiale, forse, per uno che solo pochi anni prima, impiegato presso l’Agenzia di gestione del territorio, ha fatto scavare 763 stagni, 315 pozzi, costruire ponti, dighe e tre centrali elettriche.

Qui ora, in ogni caso, si affanna il cast umano portato in scena da Platonov:  Voŝċev, il pensatore malinconico, licenziato sul lavoro perché troppo impegnato a rimuginare sul significato della vita, che cerca disperatamente, anche negli oggetti di scarto che colleziona nella sua bisaccia; Pruŝevskji, l’ingegnere perennemente depresso e morso da tentazioni suicidarie; Paŝkin, il capo del sindacato e l’unico a girare motorizzato; Safronov, l’entusiasta  della Linea del Partito e l’Attivista che resta sveglio anche la notte per meglio applicarla il giorno seguente. Čiklin, l’unico nativo proletario e il più concretamente attivo. Infine Žaċev, il social-pessimista, un invalido della guerra di classe, che ammazzerebbe volentieri la metà di loro, di cui tollera l’esistenza esclusivamente in funzione della futura gioventù, rappresentata da Nastja, la bambina adottata dal kolchoz, orfana di una madre ex borghese prematuramente morta di fame.

Platonov taglia corto con qualsiasi bozzettismo psicologico e fa parlare ai suoi personaggi esclusivamente la lingua franca dei “sovietismi” e del nuovo zar proletario: “Safronov sapeva che il socialismo era un fatto scientifico e le parole andavano perciò pronunciate in modo logico e scientifico”. La dimensione testuale dei dialoghi sembra sospesa tra utopia e antiutopia, perché l’azione, impigliata in una quotidianità assurda, beckettiana, ben presto si impantana. L’impulso teologico e pianificatore si infrange contro il mondo contadino che diserta o si mette in fila rassegnato davanti all’insegna scassata della collettivizzazione. Tra ex kulaki impoveriti, poveri, semi-poveri, e la pletora dei generici “meno che proletari” l’unico salariato doc in tutto il kolchoz risulta infatti l’indefesso Orso Martellatore, un animale mitico e stakanovista, protagonista delle ultime pagine del romanzo. Ma alla fine dovrà arrendersi anche lui, come Čiklin, come Žaċev, come tutti quelli rimasti ancora in vita. Nello Sterro la natura stessa sembra intenzionata a sottolineare politicamente il loro fallimento, con un paesaggio scheletrito punteggiato da alberi e animali stecchiti dal gelo. L’immagine di questa terrificante Caduta dello Spirito sulla terra è quella dei cavalli collettivizzati e moribondi, distrattamente morsicati dai cani affamati e impazienti. Il verdetto di Platonov è senza remissione, oggi diremmo “severo ma giusto”.  Come osserva Verc nella sua introduzione, l’incontro tra città e campagna conduce alla corruzione e all’annichilimento reciproco. La ricerca frustrata della Verità di Voŝċev continuerà a fare di lui un sognatore, un esperto di quel sentimento malinconico che in Platonov credo si definisca toskà, una parola russa che equivale a vacuità del pensiero vuoto, o assenza di pensiero, assolta nell’adempimento, per contro assoluto e totalitario, del lavoro e della fatica.  Come si è chiesto Zizek: “E se il grande cantiere – questo gigantesco buco nella terra che non sarà mai riempito con il nuovo edificio comunista, questo simbolo del dispendio di lavoro senza senso che non ha alcun ruolo nella lotta per la sopravvivenza o per una vita migliore – fosse un monumento alla toskà come indelebile condizione della nostra vita?” (Hegel e il cervello postumano).