Il corso degli eventi – pandemia, guerra – può sconvolgere i piani degli editori ma può anche alterare radicalmente l’impatto che un libro è destinato a suscitare nella percezione del lettore. Perché può anche succedere che la storia – di punto in bianco – tutto a un tratto si rimetta in moto e tu ti ritrovi a rincorrerla. Andreas Malm, teorico svedese, docente di Human Ecology e attivista del movimento contro il cambiamento climatico, si chiede, nella prefazione di un libro concepito due anni fa, come la scena ecologista, riemersa dal lockdown dopo l’emergenza pandemica, possa accogliere il suo invito a superare forme di lotta tradizionali, cioè esclusivamente pacifiche e non violente. Non poteva certo immaginare l’eco che un libro che si intitola Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia possa sollevare adesso, mentre scriviamo, nel momento in cui l’Europa – alle prese con la più grave crisi militare e strategica del dopoguerra e con venti di guerra che hanno spinto il prezzo del gas e del petrolio a livelli stellari – ha appena dichiarato l’emergenza energetica, riabilitando il nucleare e sdoganando pure il carbone, alla faccia del green deal. In questo clima avant la guerre, per la verità, non stupirebbe neppure se il libro in oggetto fosse sequestrato appena arriva in libreria, per disposizione o censura poliziesca o per semplice eccesso di zelo del libraio.
Nella sua requisitoria contro quello che considera il dogma della non violenza, Malm (ex militante di Extinction Rebellion) si rivolge soprattutto alle generazioni di attivisti per il clima che hanno assediato, pacificamente e inutilmente, per decenni, i simposi internazionali della Conference of Parties (COP) e, più recentemente, riempito le piazze dei Friday for Future. La narrazione del “pacifismo strategico”, quello che in pratica condanna qualsiasi manifestazione di violenza perché inefficace e controproducente nelle nostre società a capitalismo avanzato, si basa secondo l’autore sulla rimozione delle forme di lotta non pacifiche che hanno sempre affiancato quelle non violente in ogni contesto storico trasformativo. È la paura della rabbia nera, che potrebbe esplodere nelle strade e nei quartieri bianchi, a smuovere Kennedy e a far prevalere il movimento dei diritti civili del reverendo King (che, a maggior sicurezza, pare tenesse nel suo studio anche un revolver, just in case); è la tattica del sabotaggio, quella adottata da Nelson Mandela e dal MK, quando prendono atto che il boicottaggio internazionale non sarebbe stato sufficiente per rovesciare il regime razzista di Pretoria; e Gandhi stesso, che rigetta la violenza contro gli inglesi, non disdegna quella al loro fianco, aiutando la campagna di arruolamento dell’esercito di Sua Maestà, convinto che solo vedendo gli Indiani imbracciare i fucili i colonialisti avrebbero cominciato a rispettarli. O, più recentemente, la pacifica piazza Tahrir che, al terzo giorno di sit-it, ha fatto da cornice ai commissariati dati alle fiamme in ogni angolo della capitale.
Malm, ovviamente, non pensa neppure per un attimo di poter fermare, armi in pugno, il capitalismo fossile per invertire la crescita di CO2 provocata dal suo ciclo economico. Crede però che la “timidezza” delle forme che le proteste hanno assunto nello spazio pubblico, belle e spettacolari ma più prossime alla street art e alla rappresentazione simbolica, siano dettate solo dal rifiuto aprioristico dell’azione diretta, il che rende oggi poco credibile, oltre che poco “temibile”, un movimento che, dopotutto, dichiara di voler fermare la catastrofe per salvare la vita sul pianeta. Dal delta del Niger al deserto iracheno gli oleodotti, osserva, sono dappertutto il primo bersaglio di qualsiasi resistenza contro regimi dittatoriali, eserciti d’occupazione, multinazionali senza scrupoli, politici corrotti, ecc. Qualsiasi lotta vede nei tubi di “oro nero”, facilmente trasformabili in flauti rigurgitanti liquame catarroso, un mezzo pratico e immediato per sottrarre carburante e soldi alle file del Male. Tutte tranne, paradossalmente, l’unica lotta che negli oleodotti non vede solo uno strumento ma il Male in sé.
Su che piano, quindi, i riot e l’azione diretta collettiva possono gettare bulloni nell’ingranaggio delle cose e di un capitalismo che dietro alla postura greenwashing non rinuncia a dettare tempi e compatibilità agli umani sottoposti? Come e quando potrebbe intervenire nelle battaglie del movimento ecologista del Nord globale (a cui in definitiva si rivolge questo libro)? Un bersaglio naturale, anche se un po’ scontato, è indubbiamente l modello del lusso petro-mascolino, oggi alimentato da jet privati, yacht e SUV e da stili di vita classisti, con l’impronta ecologica di un mammuth, prediletti dall’1% e invidiati dalle classi medie in ascesa. Per fare un esempio garbato, il libro racconta di un civile tentativo di sabotaggio nella civilissima Svezia (in pratica: un volantino invita il proprietario di un SUV a riflettere sul perché in quel momento si ritrova con una ruota a terra) e di come a essere troppo civili si finisce per non essere capiti.
Non esiste, del resto, un format unico, o una tecnica universale valida a ogni latitudine, in grado di veicolare attraverso il passaparola e i comportamenti collettivi l’azione politica, tanto meno se diretta, non pacifica, illegale. Per Malm questo tipo di pratiche, non vanno confuse con quelle teorizzate e portate alla luce, intorno agli anni Ottanta e Novanta, dalla corrente dell’ecologia profonda, perché, a differenza di quelle, prendono specificatamente di mira il tipo di civiltà in cui viviamo, senza vagheggiare il ritorno a un’età “primitiva”, e puntano a diffondersi attraverso la protesta di massa, non a sostituirsi ad essa. Come ha dimostrato il movimento dei Gilet Jaunes, sorto per opporsi all’ambientalismo per soli ricchi di Macron, l’importante è puntare i riflettori sui privilegiati che inquinano soltanto perché possono farlo, senza danneggiare i pendolari, costretti a usare la vecchia auto a benzina per lavorare o, a maggior ragione, il contadino dell’Uttar Pradesh che può cucinare solo con un fornello a carbone.
Il Sud del mondo, che non può permettersi il fatalismo climatico né i sensi di colpa di un Jonathan Franzen, si trova già in prima linea contro il cambiamento climatico: In un celebre passo de I dannati della terra, Franz Fanon scrive che ‘la violenza disintossica’, che ‘sbarazza il colonizzato dal suo complesso d’inferiorità, dai comportamenti contemplativi e disperati. Lo rende intrepido, lo riabilita ai propri occhi.’ Pochi processi generano tanta disperazione quanto il riscaldamento globale. Immaginiamo che, un giorno, l’emozione – accumulata per lo più dal Sud globale – trovi sbocco. Il “ghandismo” del movimento climatico ha fatto il suo tempo, forse arriva quello del “fanonianismo”.