Andrea Tagliapietra / Come saremmo se gli specchi non funzionassero?

Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica dell’immagine, Donzelli Editore, euro 40,00 stampa, euro 18,99 epub

Nella nuova edizione rivista e integrata di La metafora dello specchio (la prima edizione, Feltrinelli, è del 1991) Andrea Tagliapietra, ordinario di Storia della filosofia all’Università San Raffaele di Milano, compone un raffinato testo che intreccia filosofia, letteratura e arte visiva per ricostruire la storia simbolica di un oggetto eccezionale: lo specchio. Attraverso l’uso fattivo e metaforico dello specchio prende forma una storia della visibilità antica, dello statuto delle immagini, del rapporto tra queste ultime e le cose.

Gli aspetti materiali e tecnologici non possono essere trascurati perché a loro volta hanno condizionato la storia della metafora dell’oggetto. I primi specchi erano metallici (soprattutto in bronzo) e necessitavano una lustratura periodica della lastra per ottenerne l’effetto riflettente e contrastare l’ossidazione. I primi specchi in vetro sono di datazione incerta, forse collocabili all’inizio dell’era volgare. Si trattava, come nel caso di quelli metallici, di piccoli specchi che consentivano di vedere il solo volto e non la figura completa. Specchi vitrei di maggiori dimensioni compaiono in Occidente nel medioevo (XIII-XIV secolo), a seguito del miglioramento delle tecniche vetrarie. Lo specchio metallico ha tuttavia una lunga durata, essendo ancora menzionato negli inventari di beni di fine XVIII secolo. Il materiale e la dimensione determinano non solo la qualità e le possibilità del guardare/guardarsi, ma anche la direzione dello sguardo. Negli specchi piccoli, di solito dotati di un manico (e quindi tenuti in mano, mai appesi), ci si guarda dall’alto verso il basso, come nelle superfici riflettenti naturali (l’acqua), un modo di vedere che implica anche la profondità.

Tagliapietra considera lo specchio una “porta dell’immagine”, l’anticamera della civiltà delle immagini. La prima immagine in assoluto è stata il riflesso di qualcosa o qualcuno nell’acqua, dove quello che conta “non è il riconoscimento di chi o di cosa si riflette nello specchio, bensì la raggiunta consapevolezza che quella che stavamo guardando è, in effetti, un’immagine”. Lo specchio è un manufatto ambiguo, in quanto nello stesso tempo “cosa” e immagine. Ci fa vedere oltre la portata del nostro sguardo e in primo luogo noi stessi: una esperienza formativa e identitaria fondamentale, in qualche modo ingannevole (nello specchio c’è un riflesso della realtà e non la realtà in sé) ma anche strumento di conoscenza. L’aspetto illusorio è accentuato dal fatto che la forma dello specchio può alterare l’immagine (una superficie concava ingrandisce, una convessa riduce) che in ogni caso non resta: scompare con la scomparsa del soggetto o oggetto riflettente, ed è quindi sempre e solo contemporanea.

L’esperienza dello specchio (quel vedere oltre e vedere dentro) è intimamente connessa con il nostro stare al mondo, col mettere le cose in ordine. Non a caso la cultura occidentale per indicare l’attività del pensare utilizza dei termini, riflessione e speculazione, derivati dall’uso e dalle caratteristiche dello specchio. Eppure questo legame con la razionalità è molto meno semplice di come appare, e a dimostrarcelo sono in primis i miti antichi, che evidenziano il legame tra lo specchio e il concetto di altro, di alterità, di andare fuori da se stessi.

Lo specchio, tra gli attributi di Dioniso, è quello che concorre, in una versione del mito, a provocare l’uccisione e lo squartamento del dio da parte dei Titani: irretito dal guardarsi nella superficie riflettente, il fanciullo viene condotto al luogo dell’agguato. Nel mito di Medusa lo specchio serve per deviare il fatale sguardo della Gorgone, per renderlo innocuo riflesso nello scudo di Perseo. Medusa è l’alterità radicale fissando la quale (e non si può non farlo) si diviene pietra. Qui è netta la divisione tra immagine e cosa: il riflesso (l’immagine) non ha il potere dell’originale. L’idea che c’è qualcosa, qualcuno, che non si può guardare, che guardare è letale, torna con Artemide, dea vergine della caccia. Ne fa le spese Atteone, un grande cacciatore che vagabondando si imbatte nella dea che si immerge nuda nelle acque di una fonte, insieme alle sue ninfe. La violazione visiva della nudità viene punita: Atteone è trasformato in un cervo.

Nel mito di Narciso, il fanciullo che non riesce a smettere di specchiarsi nell’acqua di uno stagno, è rappresentato “il fallimento del rapporto con l’altro”, l’impossibilità di amare altro da sé. Nella versione più nota, Narciso respinge l’amore della ninfa Eco ed è punito con l’innamorarsi di una sola immagine, quella di sé; il motivo dell’annegamento sarà introdotto soltanto dai neoplatonici, dopo che Platone aveva modificato lo statuto delle immagini svalutandole in nome dei “visibili primi”, ovvero le idee, che non sono visibili eppure consentono di vedere. Le religioni monoteiste sosterranno generalmente la teoria della non rappresentabilità del divino: gli idoli non sono quindi permessi, mentre le icone possono esserlo, in quanto evocano senza rappresentare.

Nel mondo classico come in quello giudaico-cristiano lo specchio è visto come uno strumento essenzialmente femminile collegato con la cura del sé e con la vanità. Per la donna – l’alterità per eccellenza che rende possibile la norma maschile – lo specchio è anche una delle poche esperienze di (auto)riconoscimento, di autonomia, di affermazione.  Nel mondo greco “mentre all’uomo l’uso dello specchio è interdetto, se non dal barbiere o in pubblico, pena la perdita della sua mascolinità, essendo il cittadino maschio riflesso e, quindi, riconosciuto solo dagli sguardi degli altri cittadini, suoi pari, che compongono la comunità della polis, la donna, isolata dallo sguardo pubblico dei maschi nel gineceo, ha bisogno dell’oggettività dello specchio per ottenere il riconoscimento e la conferma della sua particolare identità”.

Non è solo vanità; attraverso lo specchio abbiamo la possibilità di vedere il resto del mondo. Lo specchio restituisce tutte le immagini tranne quella di sé stesso. E in quel restituire tutto c’è anche la metafora potente e pervasiva, che ha accompagnato il medioevo, della natura come speculum mundi, nel quale l’uomo poteva contemplare l’opera e l’immagine di Dio. Uno specchio che andrà in frantumi alle soglie della modernità, a partire dalla filosofia di Cartesio e al suo mettere in dubbio tutti i sensi e la vista in particolare. Lo specchio allora diventerà uno strumento di finzioni, di duplicazione, di illusione. Sarà molto usato nell’architettura barocca e poi onnipresente nelle abitazioni borghesi dell’Ottocento europeo (quando si diffonde l’armadio a specchio).

In tante opere artistiche a partire dal XVII secolo lo specchio è impiegato per svelare, per mostrare quello che c’è fuori campo. Al caso forse più noto di “specchio entrato nel quadro”, Las Meninas di Diego Velázquez (1656), il “quadro-manifesto della rappresentazione della rappresentazione classica”, l’autore dedica una appassionante trattazione. Il dipinto è confondente e ricco di paradossi di rappresentazione. Nel quadro vediamo il retro di una grande tavola, sulla quale il pittore sta dipingendo la famiglia reale spagnola; in primo piano alcune figure (al centro l’infanta Margarita) si stanno probabilmente specchiando per assumere la giusta posa. Sullo sfondo, al centro delle vie di fuga, c’è uno spettatore, identificato come il ciambellano al servizio della regina. Ancora sul fondo ma spostata a sinistra, vediamo l’immagine evanescente e soffusa dei due reali di Spagna, riflessi in un secondo specchio. Un riflesso che Tagliapietra reinterpreta come specchiamento non delle due persone reali ma della loro rappresentazione dipinta dal pittore nel quadro di cui vediamo il retro. In questo enigma semiotico e visivo niente, a conti fatti, torna del tutto. Lo specchio rimanda alla rappresentazione della rappresentazione (altro che speculum mundi) e il backstage diventa il soggetto del quadro: più, prima e in assenza del prodotto finale.

Nessuna opera enuncia meglio il mistero dello specchio (e giustamente l’autore la richiama nell’Introduzione) del quadro di Magritte “La riproduzione vietata” (1937), che ci mostra un uomo di spalle che si sta specchiando: solo che nello specchio invece che vedere il suo volto, vediamo (di nuovo) la sua nuca e schiena. L’invenzione di Magritte sembra negare il potere dello specchio e ci interroga su cosa sarebbe un mondo senza specchi. Come saremmo se gli specchi non funzionassero?

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