Il protagonista del romanzo di Andrea Quattrocchi è un siciliano che lavora a Milano così come l’autore; ci si augura che le somiglianze tra i due si fermino qui perché il Sig. Debellis decide di raccontare, in una lunga diretta Facebook, il suo lato oscuro, quello che per trent’anni è riuscito a tenere nascosto a tutti, forze dell’ordine comprese, e cioè la sua partecipazione a un crimine avvenuto trent’anni prima nel paese di origine, Pietrarossa.
Non c’è ombra di pentimento in questa confessione perché, in realtà, non è di questo che si tratta, ma di una lunga invettiva in cui – con toni polemici, aggressivi e a volte violenti – più che accusare sé stesso, Debellis accusa un po’ tutti: lo Stato perché ha indagato su “il fatto dei fatti” in maniera grossolana senza giungere all’individuazione del colpevole sprecando i soldi dei contribuenti; la madre casalinga insoddisfatta, considerata un flagello che lo ha danneggiato; il padre sciatto, disinteressato e assente, colpevole di essere afflitto da demenza senile; i suoi concittadini “che rimangono fermi immobili, si muovono lentamentissimamente, se si muovono sembrano certe meduse che si muovono nel mare, che danzano, le meduse, e così gli abitanti di Pietrarossa, abitanti nel senso di chi c’è nato e ci vive ancora e non se n’è mai andato. Loro non vivono, danzano, e, come le meduse, pungono se ti avvicini, e irritano”; la compagna Silvia che ha bisogno di tempo; i cattolici che non vogliono vedere la povertà perché fa loro ribrezzo e paura; il cugino considerato opportunista e traditore, e persino gli americani che ci intossicano con i loro film e i filippini che guardano il mondo con i loro occhi a mandorla.
In questo desiderio di rivelarsi e di consegnarsi alla giustizia, il protagonista non cerca assoluzioni, ma un momento di gloria: non gli basta la visibilità effimera delle quattro ore di durata della diretta Facebook, ma chiede che il suo genio criminale venga ufficialmente riconosciuto tramite una “punizione [che] deve essere esemplare, spero che lo sia, me lo auguro, in questo paese è dura essere condannati anche per un reo confesso, ma insomma fate quello che dovete fare io accetterò la mia punizione, le carceri sono sovraffollate ma un posto per uno come me ci sarà pure, per un pezzo da novanta, sento che è il prezzo che devo pagare”.
Al racconto di quello che accadde trent’anni prima – attenzione, però, che chi ricorda potrebbe anche mentire – si sovrappone la storia più recente della scomparsa del padre: i protagonisti e l’ambiente sono più meno gli stessi, e Quattrocchi gioca con il lettore a mescolare e sparigliare le carte complice anche l’uso di flussi di parole che salgono, scendono, si rincorrono, si allungano e si ritraggono come una marea, a rispecchiare, forse, una certa perdita di lucidità, una propensione al delirio del protagonista.
La cattiveria rivendicata dal Debellis, l’unico personaggio di cui non conosciamo il nome di battesimo, non è una cattiveria articolata, con motivazioni difficili da capire, ma qualcosa di elementare: semplicemente il diritto di essere quello che si è. Viene da pensare che, in fondo, cattivi e violenti – i cosiddetti mostri – sono come noi, o meglio, noi avremmo potuto essere loro e forse possiamo ancora esserlo: “Rivendico il diritto di essere come sono: io sono cattivo, cioè non sono buono come voi pensate.”
Dal momento che l’autore ammette di non essersi accorto, inizialmente, che la sua opera era stata segnalata alla XXXIV edizione del Premio Calvino, ricordiamo la motivazione a tutti i distratti come lui: “Per il magistrale ritratto di un personaggio ossessivo che forse trent’anni prima ha commesso un delitto attraverso la sua inaffidabile e delirante confessione su Facebook.”