Un fascismo probo e onesto; una dittatura mai sanguinaria e sempre piena di sollecitudine nei riguardi delle classi meno agiate del paese; un duce buono e generoso che non avrebbe voluto né guerra, né alleanza con Hitler e, prigioniero delle circostanze, si era trovato suo malgrado costretto a fare scelte sbagliate; una Repubblica sociale nata solo per mitigare l’ira e la vendetta dell’alleato tedesco, intendendo risparmiare a tutti gli italiani ulteriori lutti; un esercito di patrioti che in nome dell’onore si era immolato in sacrificio subendo le spietate rappresaglie di comunisti e traditori; una gloriosa fratellanza di “esuli in patria” che dopo la sconfitta – “mancò la fortuna non il valore” – si era ricompattata, ancora in piedi fra le rovine, per mantenere viva la fiamma dell’Idea. Basta ascoltare – ammesso e non concesso che valga la pena ascoltarli – un qualsivoglia discorso dei nostri attuali governanti per risentire, nemmeno tanto ben mascherato o aggiornato, l’eco di tutte queste, e altre consimili, consolidate scempiaggini. E non c’è da stupirsi perché non solo gli eredi diretti dei vecchi fascisti ma anche molti italiani qualsiasi, eredi a loro volta delle generazioni più anziane, di idee moderate ma non necessariamente nostalgiche, le hanno spesso ripetute pappagallescamente: “il fascismo ha fatto anche cose buone”, “il duce era un brav’uomo ma è stato mal consigliato”, “se stavi al tuo posto il regime ti lasciava in pace”, “c’era ordine e prosperità e i treni arrivavano in orario”, “sono stati i tedeschi, noi facevamo quel che potevamo”, e così via. Un’evidente traccia di cattiva coscienza condivisa è la prova tangibile che mai alcuna epurazione avrebbe potuto sgorgare la fogna italiana: un dato di fatto cui si era dovuto rassegnare perfino il ben intenzionato Togliatti.
Eppure la narrazione della destra radicale è stata ed è ben diversa: dimenticando le fin troppo clementi amnistie del dopoguerra, la reintegrazione nei ranghi della Repubblica nata dalla Resistenza di buona parte della passata classe dirigente littoria, la fondazione già nel 1946 del partito politico di reduci neofascisti acronimo di Mussolini, la posizione privilegiata conferita fin dall’inizio della Guerra fredda a questo piccolo baluardo dell’anticomunismo – se non proprio gradito almeno utile – dai nuovi alleati atlantici, si continua indefessamente a parlare di epurazione, a millantare 300.000 vittime della vendetta partigiana (cifra ridicola: stime attendibili contano meno di 10.000 esecuzioni quasi tutte concentrate nella primavera del 1945), a definire i propri esponenti con il romantico appellativo di “esuli in patria”.
Il volume di Andrea Martini dimostra, prove alla mano, che fin dall’immediato dopoguerra non vi fu invece alcun esilio per gli esponenti piccoli e grandi del passato regime, ma che anzi, la stampa li accolse subito a braccia aperte come testimoni, cronisti e memorialisti, attraverso innumerevoli volumi e articoli sugli allora diffusissimi rotocalchi illustrati, dando così loro modo di fornire liberamente la propria versione dei fatti, per discolparsi, captando la benevolenza dei lettori, giustificarsi e giustificare di rimando lo stesso fascismo e il suo duce. Molte delle fole che abbiamo elencato all’inizio emergono proprio da questa pubblicistica de cuius, ma va comunque sottolineato che molti italiani simili fole gradivano assai farsele raccontare, e non per beneficenza gli editori accordavano spazio a così particolari autori, ma soprattutto perché i loro libri vendevano migliaia di copie e i periodici che pubblicavano i loro reportage alzavano le tirature. Insomma il fascismo quantomeno interessava. Martini divide autori e fruitori di questa specifica letteratura, storica in apparenza, propagandistica di fatto, in tre categorie: i fascisti veri e propri (il gruppo più esiguo), i filofascisti (già più numerosi) e gli anti-antifascisti (l’aggregato più nutrito e variegato che poteva spaziare da Prezzolini a Montanelli, da Berto a Longanesi).
Il caso letterario più clamoroso della prima categoria fu forse Ho difeso la patria (1947) di Rodolfo Graziani, che riprendendo quasi parola per parola la strategia difensiva approntata dai legali nei processi che coinvolsero il generale (condannato a 19 anni per collaborazionismo, 13 anni e otto mesi condonati; mai processato per i crimini di guerra perpetrati in Libia e in Etiopia – questa fu l’epurazione…), ridimensiona la propria appartenenza al fascismo, prende le distanze da Mussolini e giustifica l’adesione alla RSI come “dovere morale” (salvo accettare nel 1953 la presidenza onoraria del MSI). Poi sicuramente Vent’anni e un giorno (1949) di Giuseppe Bottai, che senza rinnegare il fascismo lo scinde da Mussolini e dalla sua progressiva soggezione a Hitler (dimentica però di menzionare la propria intransigenza nell’applicazione delle leggi razziali nel 1938 come Ministro dell’Educazione nazionale) e rivendica il suo appoggio all’ordine del giorno Grandi alla seduta del Gran Consiglio del fascismo del 24 luglio 1943 che portò alla caduta del regime, oltre alla sua decisione di arruolarsi nella Legione straniera francese per riscattarsi combattendo i nazisti (e sperando di usufruire della riduzione o annullamento della pena garantita dal governo Bonomi anche a tutti i dirigenti ex fascisti che si fossero uniti alla lotta antitedesca) – motivo per cui Bottai non divenne mai un bestseller tra fascisti e filofascisti e l’ex gerarca venne anzi pubblicamente schiaffeggiato e insultato come traditore da un missino. Il maggior bestseller dell’epoca fu invece Otto milioni di baionette (1946) di Mario Roatta (direttore dei servizi segreti fascisti coinvolto nell’assassinio dei fratelli Rosselli, criminale di guerra in Slovenia e Croazia, passato poi con Badoglio fu responsabile della mancata difesa di Roma, occupata dalla Wehrmacht nel 1943), non a caso è il testo in cui si costruisce strumentalmente il mito degli “italiani brava gente”, i bravi soldati che facevano solo il loro dovere senza odio per l’avversario e senza amore per la guerra – esattamente quello che gli italiani volevano sentirsi dire – in più la consueta presa di distanza verso Mussolini, succube di Hitler, e verso un regime nel suo complesso che aveva gettato il paese in un’avventura bellica senza preoccuparsi delle sue enormi deficienze militari.
Una categoria a parte è rappresentata poi da quei testi che tendono a umanizzare e rendere simpatica la figura di Mussolini. Il capostipite è ovviamente La mia vita con Benito (1948) di Rachele Guidi, la moglie del duce, ma scritto in realtà da Giorgio Pini (già caporedattore de “Il Popolo d’Italia” e autore di varie biografie apologetiche mussoliniane come Filo diretto con Palazzo Venezia o Mussolini, L’uomo e l’opera, in cui a secondo delle convenienze Mussolini viene dipinto come un superuomo oppure come fragile e candido); e nelle presunte pagine di Rachele sono i gerarchi che tramano alle spalle di un duce troppo ingenuo e generoso coi collaboratori, un duce patrono delle arti e fautore della previdenza sociale. In questo campo, oltre a quello fascista e filofascista, si distingue particolarmente il fronte anti-antifascista con alla testa Indro Montanelli e il suo Il buonuomo Mussolini (1947) – dieci edizioni in un anno – in cui si popolarizza il mito di un duce dal cuore tenero e si forgia l’arsenale dell’anti-Resistenza, tanto che il giornalista di Fucecchio dovette temporaneamente scappare da Milano temendo ritorsioni partigiane contro di lui: e proprio Montanelli, insieme a Leo Longanesi, è il vero artefice di questa linea di revisionismo ante litteram di cui testimonia anche l’altro bestseller confezionato dai due già nel 1946, le Memorie del cameriere di Mussolini attribuite a Quinto Navarra, usciere di palazzo Chigi e commesso di Mussolini, pieno di aneddoti umoristici, ironici e intesi a rendere vicino e “divertente” il duce, in realtà alimentandone il mito encomiastico: grande lavoratore, grande amatore, uomo integro affezionato alla famiglia e chi più ne ha più ne metta. Questa dimensione “comune”, ordinaria e bonaria del duce – non più l’Uomo della Provvidenza, dunque – viene rimarcata anche in Mussolini piccolo borghese (1950) di Paolo Monelli, altro esponente di quella “zona grigia” che ha trasferito ai posteri un’immagine edulcorata e ingentilita del capo del fascismo.
Dichiaratamente fascisti erano invece Edoardo e Duilio Susmel, padre e figlio, che realizzarono il progetto più ambizioso in questa area culturale: la pubblicazione dell’Opera Omnia di Benito Mussolini, l’unica raccolta completa dell’intera produzione scritta e orale del duce, per un totale di 36 volumi più 8 di appendici, usciti in libreria tra il 1951 e il 1980. Garzanti si mostrò dal principio interessato a quanto appariva, e in parte era, un documento imparziale e obbiettivo, ma si tirò poi indietro di fronte alla mole dell’opera: Susmel dovette ripiegare su un piccolo editore toscano dal nome emblematico, La Fenice. Nonostante i costi decisamente alti i primi volumi dell’Opera Omnia (usciti in ordine non cronologico) andarono a ruba e divennero, necessariamente, un riferimento anche per storici non compromessi ideologicamente come Delio Cantimori e Renzo De Felice per i quali Susmel divenne anche un prezioso consulente avendo egli mantenuto rapporti stretti coi maggiori protagonisti del nazifascismo, da Junio Valerio Borghese a Otto Skorzeny. Susmel fu anche il maggiore (non l’unico) promotore della santificazione di Clara Petacci, la principale amante di Mussolini, con un’inchiesta pubblicata sul rotocalco “Gente” divenuta poi una biografia distribuita in edicola, Claretta Petacci. Vita e morte della donna che volle restare con Mussolini sino alla fine (1959), un enorme successo di pubblico seppur osteggiato dalla famiglia Petacci.
Come mette giustamente in risalto Martini, i rotocalchi illustrati da edicola furono, tanto e forse di più dei volumi da libreria, i vettori di questa neanche troppo velata rivalutazione del fascismo. Gli editori confermarono, anche in quell’allora floridissimo settore, le propensioni ideologiche già consegnate ai libri: Longanesi e Garzanti “dalla parte dei vinti”, Rizzoli e Mondadori più che altro attenti alle ragioni del mercato. E sulle pagine di “Epoca” (Mondadori), “Oggi” (diretto da Rusconi e edito da Rizzoli), “Gente” (Rusconi), “Tempo” (Palazzi), “Il Borghese” (Rizzoli e Longanesi, poi solo Longanesi), fiorirono le leggende – fake news le chiameremmo oggi – che tuttora resistono, dal carteggio Churchill-Mussolini, ricco di chissà quali sorprendenti rivelazioni, ai fantomatici diari del duce, anche questi forieri di improbabili svelamenti, dalle men che ipotetiche conquiste sociali e pensionistiche favorite dal regime, fino al martirologio di Salò, ben corredato di abbondanti e sgradevoli immagini fotografiche (spesso false), ordito da Giorgio Pisanò – passato direttamente dalle Brigate nere al giornalismo d’inchiesta – e che, ereditato pari pari in anni più recenti dall’astuto Giampaolo Pansa, avrebbe fatto la sua fortuna restaurando una carriera ormai in declino. Insomma è bene sapere che da qui si origina tutto quell’armamentario di frottole, esagerazioni, travisamenti ad usum delphini con cui la destra continua ad affliggerci e che gli ingenui e gli ignoranti prendono in parola tanto da votarla.