Andrea Capriolo / Anni ’70: la rete dei Circoli

Andrea Capriolo, Non c’è rivoluzione senza libidine. Dai Circoli del proletariato giovanile ai centri sociali, DeriveApprodi, pp. 144, euro 15,00 stampa

Quando nel 1978, nel corso di un festival dedicato all’arte di arrangiarsi, i giovani e le giovani che frequentavano Macondo – uno dei molti luoghi controculturali che animarono Milano negli anni Settanta – decisero, letteralmente, di svendere il ’68, i dieci anni che li separavano da quella data li avevano visti crescere e li avevano plasmati come soggetti politici, ma avevano anche segnato la distanza incolmabile tra le lotte e le strategie sessantottine e le loro. Assumendo l’ironia come strumento e dichiarando che tutto, in quella che si apprestava a diventare la “Milano da bere” – o, anche, “da pere” – poteva essere venduto, il nuovo soggetto a cui Andrea Capriolo dedica Non c’è rivoluzione senza libidine, aveva partecipato a una stagione di lotte, rivendicazioni, ma anche feste, autoriduzioni, occupazioni che avevano modellato il concetto stesso di centro sociale. Nuovo precario, era pronto a fare il suo ingresso nell’industria culturale degli ultimi due decenni del Novecento.

Libro nato a partire da una ricerca di dottorato in Storia dell’arte: fatto, questo, piuttosto singolare, visto che la ricognizione sembrerebbe esimersi quasi del tutto dal proporre qualsiasi riferimento artistico, per avvicinarsi alla storia, agli studi culturali o alla teoria politica. Ma una delle proposte più originali, probabilmente, è quella non dichiarata. Quale prospettiva assumere laddove non è possibile un’unica prospettiva? Quali ambiti disciplinari toccare, quando già cinquant’anni fa i confini sbiadivano da almeno un altro mezzo secolo? Provando a rimetterli in discussione, guardando attraverso la cortina di materiali effimeri, attraversando fonti e media, videotape e fanzine, lasciando ai discorsi aperti la possibilità di svilupparsi in mille rivoli, Capriolo racconta – obliquo ma non disorientato – le vicende di quello che sarebbe diventato, come scrive Alessandro Del Puppo nella prefazione, il nuovo soggetto per eccellenza. Il filtro delle esperienze di cui si occupa è quello della produzione “culturale” dei Circoli del proletariato giovanile, fatta eccezione per qualche sconfinamento: dal cinema militante alla grafica, dalla produzione musicale alle proposte teatrali, si muove in un territorio circoscritto, quello meneghino, mettendo a comune denominatore l’attitudine creativa, vitalistica, ironica che attraversa tutto il libro.

Capriolo percorre in lungo e in largo il tessuto urbano – che da sede del controllo divenne luogo e mezzo della ricomposizione di classe – per abbozzarne una mappa “giovanilista”, tra ristoranti macrobiotici e osterie a buon prezzo, negozi di vestiti usati o di dischi. Territori e confini sono infatti il fondamentale oggetto di studio di un lavoro che scansa ogni successione lineare a favore di un inno alla marginalità, in cui periferie della percezione, della metropoli e della storia continuamente si sovrappongono. Dismessi gli abiti dell’operaio-massa fedele al partito o al sindacato, il nuovo giovane cercava spazi di lotta ma anche di espressione. Appena prima della deflagrazione del Settantasette, spostatasi soprattutto sull’asse Roma-Bologna a partire dalla contestazione capitolina a Luciano Lama, a Milano le autoriduzioni riguardavano inizialmente bollette e affitti e le occupazioni avevano scopo abitativo. A partire dal 1974, invece, faceva capolino nel panorama di riferimento il desiderio. Tutt’altro che millenarista, esso era incarnato: si voleva sia la rivoluzione sia il lusso, sia la casa sia il cinema, seguendo gli assunti del pensiero d’oltralpe, che fosse di Gilles Deleuze e Félix Guattari o di Agnes Heller.

Sono proprio i concetti di “giovane” e di “desiderio” nella critica italiana a essere analizzati da Capriolo a partire, per esempio, da Alberto Asor Rosa e Franco “Bifo” Berardi. Tramontata l’austerità e maturata la distanza dal partito e dal sindacato, il nuovo giovane non era più soddisfatto di una rivoluzione che sarebbe dovuta giungere grazie alla severa disciplina e aveva invece provato ad abitare, vivere e praticare la rivoluzione ogni giorno, nella convinzione che anche il piacere, il lusso o l’ozio fossero diritti. Rimane celebre, a questo proposito, la rivendicazione del “diritto al caviale”. Così, le autoriduzioni iniziarono a riguardare anche i biglietti del treno o del tram, i grandi concerti o i ristoranti di lusso. Le occupazioni non avevano più solo scopo abitativo. Luoghi di aggregazione e centri di produzione culturale ad ampio spettro, i primi Circoli del proletariato giovanile comparivano sulla mappa di Milano.

Organizzavano festival e facevano controinformazione, ma soprattutto in essi non c’era ancora la netta divisione tra utenti e organizzazione che avrebbe altrimenti caratterizzato il mondo dell’intrattenimento. L’auto-organizzazione aveva permesso, insieme a strumenti come la radio o la stampa offset, la fioritura di numerose realtà autogestite, la produzione di migliaia di riviste e il sovrapporsi di molte voci nell’etere. A Milano, erano i Circoli del proletariato giovanile ad aver organizzato le grandi feste nei parchi pubblici, e ancora i festival come quello di Parco Lambro, che nel 1976 già scopriva il fianco tramite episodi discriminatori e coercitivi. Erano, infine, i Circoli ad aver organizzato la contestazione alla prima della Scala di Milano, nel dicembre 1976, finita in una violenta repressione che anticipava quella del Settantasette.

Un attimo prima che a una stagione ne succeda un’altra, il volume si conclude intorno al 1978. Quella raccontata è una vicenda che lascia l’amaro in bocca, sospesa appena prima del decennio dell’edonismo e dell’eroina, ma a Milano essa aprì anche la strada alle “geografie del desiderio” di Primo Moroni, a cui ancora oggi torniamo. Il laboratorio umano e politico del centro sociale occupato, che qui, almeno in parte, affonda le radici, è tutt’altro che obsoleto, sebbene a tratti sembri accerchiato.