Quando nel 1978, nel corso di un festival dedicato all’arte di arrangiarsi, i giovani e le giovani che frequentavano Macondo – uno dei molti luoghi controculturali che animarono Milano negli anni Settanta – decisero, letteralmente, di svendere il ’68, i dieci anni che li separavano da quella data li avevano visti crescere e li avevano plasmati come soggetti politici, ma avevano anche segnato la distanza incolmabile tra le lotte e le strategie sessantottine e le loro. Assumendo l’ironia come strumento e dichiarando che tutto, in quella che si apprestava a diventare la “Milano da bere” – o, anche, “da pere” – poteva essere venduto, il nuovo soggetto a cui Andrea Capriolo dedica Non c’è rivoluzione senza libidine, aveva partecipato a una stagione di lotte, rivendicazioni, ma anche feste, autoriduzioni, occupazioni che avevano modellato il concetto stesso di centro sociale. Nuovo precario, era pronto a fare il suo ingresso nell’industria culturale degli ultimi due decenni del Novecento.
Libro nato a partire da una ricerca di dottorato in Storia dell’arte: fatto, questo, piuttosto singolare, visto che la ricognizione sembrerebbe esimersi quasi del tutto dal proporre qualsiasi riferimento artistico, per avvicinarsi alla storia, agli studi culturali o alla teoria politica. Ma una delle proposte più originali, probabilmente, è quella non dichiarata. Quale prospettiva assumere laddove non è possibile un’unica prospettiva? Quali ambiti disciplinari toccare, quando già cinquant’anni fa i confini sbiadivano da almeno un altro mezzo secolo? Provando a rimetterli in discussione, guardando attraverso la cortina di materiali effimeri, attraversando fonti e media, videotape e fanzine, lasciando ai discorsi aperti la possibilità di svilupparsi in mille rivoli, Capriolo racconta – obliquo ma non disorientato – le vicende di quello che sarebbe diventato, come scrive Alessandro Del Puppo nella prefazione, il nuovo soggetto per eccellenza. Il filtro delle esperienze di cui si occupa è quello della produzione “culturale” dei Circoli del proletariato giovanile, fatta eccezione per qualche sconfinamento: dal cinema militante alla grafica, dalla produzione musicale alle proposte teatrali, si muove in un territorio circoscritto, quello meneghino, mettendo a comune denominatore l’attitudine creativa, vitalistica, ironica che attraversa tutto il libro.
Capriolo percorre in lungo e in largo il tessuto urbano – che da sede del controllo divenne luogo e mezzo della ricomposizione di classe – per abbozzarne una mappa “giovanilista”, tra ristoranti macrobiotici e osterie a buon prezzo, negozi di vestiti usati o di dischi. Territori e confini sono infatti il fondamentale oggetto di studio di un lavoro che scansa ogni successione lineare a favore di un inno alla marginalità, in cui periferie della percezione, della metropoli e della storia continuamente si sovrappongono. Dismessi gli abiti dell’operaio-massa fedele al partito o al sindacato, il nuovo giovane cercava spazi di lotta ma anche di espressione. Appena prima della deflagrazione del Settantasette, spostatasi soprattutto sull’asse Roma-Bologna a partire dalla contestazione capitolina a Luciano Lama, a Milano le autoriduzioni riguardavano inizialmente bollette e affitti e le occupazioni avevano scopo abitativo. A partire dal 1974, invece, faceva capolino nel panorama di riferimento il desiderio. Tutt’altro che millenarista, esso era incarnato: si voleva sia la rivoluzione sia il lusso, sia la casa sia il cinema, seguendo gli assunti del pensiero d’oltralpe, che fosse di Gilles Deleuze e Félix Guattari o di Agnes Heller.
Sono proprio i concetti di “giovane” e di “desiderio” nella critica italiana a essere analizzati da Capriolo a partire, per esempio, da Alberto Asor Rosa e Franco “Bifo” Berardi. Tramontata l’austerità e maturata la distanza dal partito e dal sindacato, il nuovo giovane non era più soddisfatto di una rivoluzione che sarebbe dovuta giungere grazie alla severa disciplina e aveva invece provato ad abitare, vivere e praticare la rivoluzione ogni giorno, nella convinzione che anche il piacere, il lusso o l’ozio fossero diritti. Rimane celebre, a questo proposito, la rivendicazione del “diritto al caviale”. Così, le autoriduzioni iniziarono a riguardare anche i biglietti del treno o del tram, i grandi concerti o i ristoranti di lusso. Le occupazioni non avevano più solo scopo abitativo. Luoghi di aggregazione e centri di produzione culturale ad ampio spettro, i primi Circoli del proletariato giovanile comparivano sulla mappa di Milano.
Organizzavano festival e facevano controinformazione, ma soprattutto in essi non c’era ancora la netta divisione tra utenti e organizzazione che avrebbe altrimenti caratterizzato il mondo dell’intrattenimento. L’auto-organizzazione aveva permesso, insieme a strumenti come la radio o la stampa offset, la fioritura di numerose realtà autogestite, la produzione di migliaia di riviste e il sovrapporsi di molte voci nell’etere. A Milano, erano i Circoli del proletariato giovanile ad aver organizzato le grandi feste nei parchi pubblici, e ancora i festival come quello di Parco Lambro, che nel 1976 già scopriva il fianco tramite episodi discriminatori e coercitivi. Erano, infine, i Circoli ad aver organizzato la contestazione alla prima della Scala di Milano, nel dicembre 1976, finita in una violenta repressione che anticipava quella del Settantasette.
Un attimo prima che a una stagione ne succeda un’altra, il volume si conclude intorno al 1978. Quella raccontata è una vicenda che lascia l’amaro in bocca, sospesa appena prima del decennio dell’edonismo e dell’eroina, ma a Milano essa aprì anche la strada alle “geografie del desiderio” di Primo Moroni, a cui ancora oggi torniamo. Il laboratorio umano e politico del centro sociale occupato, che qui, almeno in parte, affonda le radici, è tutt’altro che obsoleto, sebbene a tratti sembri accerchiato.