È risaputo che Georges Simenon e Andrea Camilleri, a un certo punto della carriera di scrittori, consideravano come qualcosa di molto simile a un fastidio il fatto che il pubblico identificasse la loro opera soprattutto con il fortunatissimo commissario protagonista delle rispettive serie poliziesche: Jules Maigret per il primo, Salvo Montalbano per il secondo. Entrambi gli scrittori, tuttavia, consideravano che il vero valore della loro scrittura fosse altrove: nei romans durs per il belga, nei romanzi storici e nei romanzi civili per il siciliano. E come dar loro torto? Entrambi, a ogni modo, hanno dato per ultimo alle stampe un’avventura del loro commissario.
Riccardino, terminato di scrivere nel 2005, ripreso in mano nel 2016 per un aggiornamento linguistico e uscito postumo a un anno dalla morte, è infatti l’ultimo atto delle avventure del commissario Montalbano.
Perché, mi sono domandato, per quale ragione rimandarne di anni la pubblicazione? La breve prefazione di Salvatore Silvano Nigro chiarisce la vicenda editoriale: nel 2005 Camilleri consegna il dattiloscritto alla casa editrice, con l’accordo consensuale che questo sarà l’ultimo episodio nelle indagini del commissario siciliano, già allora celebre in tutto il mondo. Riccardino è una sorta di titolo di lavoro, poco in linea con la titolazione delle altre avventure, dove troviamo sempre soggetto e complemento: per esempio La pazienza del ragno, Un covo di vipere o L’altro capo del filo. Tuttavia, con il tempo, Camilleri si affeziona a quel nome/titolo; non solo, per sua esplicita richiesta, si conviene che il romanzo venga pubblicato contemporaneamente in due edizioni. Una in copertina rilegata, contenente entrambe le versioni del romanzo, quella 2005, scritta nella “lingua bastarda”, utilizzata agli inizi della carriera di scrittore, ricca di sicilianismi, e un’altra, quella 2016, aggiornata alla “lingua inventata” dell’inventata città di Vigàta nell’inventata provincia di Montelusa: il pidgin mediterraneo e colorito, che è uno dei punti di fascino di Camilleri, come ammette qualsiasi lettore che sia riuscito a entrare nella sua scrittura straniante.
Tuttavia mi sono ancora domandato: per quale ragione stabilire già quindici anni prima che sarebbe stato proprio questo l’ultimo romanzo di Montalbano (per la cronaca, il numero 31), destinato a prendere congedo dai lettori — dunque non uno dei “romanzi civili” di cui va fiero, bensì con un poliziesco del commissario amato/odiato, perché come tanti colleghi Camilleri è ostaggio del proprio protagonista.
La risposta non è quella che avete tutti lì, sulla punta della lingua: “perché Montalbano MUORE!, così nessun epigono potrà proseguire le sue storie!”
La verità è che la pubblicazione di Riccardino avrebbe irrimediabilmente condizionato successive (eventuali) avventure di Montalbano, e questo né la casa editrice né i lettori avrebbero apprezzato. Perché questo libro postumo è un meta-romanzo nel quale autore e protagonista si confrontano sulla trama e sul significato del poliziesco: fino dalle prime pagine si mette in chiaro che il capo del commissariato di Vigàta è diventato famoso grazie a uno scrittore mai nominato (tuttavia la descrizione della sua voce al telefono non lascia dubbi), che ha scritto avventure con lui come protagonista dalle quali è stata tratta una fortunata serie TV, uno scrittore che lo importuna con telefonate notturne per criticare le sue intuizioni e convincerlo a dirigere le indagini in una determinata direzione. Questa dialettica prosegue per tutto il libro, fino al punto in cui l’Autore sottopone a Montalbano un intero, coerente finale. In questo modo Riccardino cortocircuita realtà e fiction, come nel cuore della tradizione postmoderna, rendendo evidente che ciò che abbiamo tra le mani non è una realtà alternativa in cui immergersi, bensì invenzione, finzione, un procedurale narrativo e non poliziesco. Quale migliore epilogo per “il personaggio più popolare prodotto dalla letteratura italiana a cavallo tra questi millenni”?