L’altro addio consente a Veronica Tomassini di tornare al paesaggio oscuro e doloroso, ma colmo di spinte vitali e infine dilapidate, descritto nel romanzo precedente, dove l’amore prodigo e violento era tutto ciò che imbeveva Sangue di cane. Se nel primo romanzo il linguaggio si posava su due corpi dagli organi caldi (la storia d’amore fra la ragazza italiana e il semaforista Slawek, polacco rabbioso e alcolizzato), costituendone il poema della resistenza e della redenzione, qui seguendo le vicende anteriori dell’uomo si entra in un ciclo concentrico. Di eventi la cui narrazione è come un terremoto dell’anima, ben sapendo che ogni storia, ogni frase, ogni coltellata in pancia, sono vere.
Lo scandalo di quest’allucinato cosmo terrestre ha il suo nucleo nell’uomo che sopravvive a ogni margine conosciuto, preda d’alcol e tubercolosi, letteralmente sbattuto e schiacciato dentro un popolo di strada dove dominano povertà prostituzione e lerciume. Egli stesso è “popolo”, corpo pesante sui giudizi di coloro che non hanno la minima idea di cosa esista al di là di quel palazzo, in quel vicolo ai piedi del grattacielo, in quelle fogne che sono per alcuni luoghi di accoglienza. Ma attenzione, qui e in questo libro non si fa sociologia d’accatto, né strafottenti turismi dell’estremo. Anche L’altro addio è una forma di poema, scritto in prosa, che supera le atmosfere cupe e distopiche di certa narrativa. Le pagine battute a macchina dall’autrice sono tutto il sangue da lei versato per raggiungere il polacco amato, seguirlo durante gli andirivieni intossicati fra Polonia e Italia, fra una moglie già amata e donne che pur nella disperazione riescono ancora a farsi prendere con un amore che possiamo solo sognarci.
Le pagine scagliano sulle nostre facce bigotte quel pulviscolo di tragedia mai finita che si ripete e si ripete nella risacca torbida ed eterna. Tomassini, in ogni capitolo scritto nel modo che ben conosciamo, riesce a tenere stretto il disordine, pur essendovi immersa e ingravidata, nello sfogo del vocabolario e nella partitura della catastrofe su cui non si può piangere. Come Pasolini non pianse mai dentro alla ferocia del mondo. Poiché egli stesso ne faceva parte. Qui sta la sua forza di scrittrice. La disperazione delle perdite ripetute, mai scalfite da un goccio di civiltà, non la fanno affondare in melme ripugnanti, nemmeno con l’aiuto del buon senso: se mai lei allunga una mano verso il banco degli alcolici, verso il ventre gonfio e duro delle prostitute, s’imbeve di questa malattia, ma non permette a niente e nessuno di consumare o abbattere la scrittura.
Dunque lei riesce a raccontare quello che nessun servizio televisivo sulle migrazioni interne all’Europa può fare. Una sola pagina ammazza tutto ciò che la visione comune, molto più offuscata di quanto si pensi, presenta al nostro orizzonte. L’alienazione di Slawek (a cui si rivolge con il vezzeggiativo Misiek) non alligna nella testa, ma nella spina dorsale e nelle caverne dei polmoni. Le frontiere non sono più in mezzo alle valli ma nella pesantezza delle bestemmie, nel trovarsi vicino alla morte col corpo esausto pensando che finalmente sia finita. Ma non è finita, non lo è.
Questo libro dà del tu a chi davvero ha avuto la visione della realtà, all’uomo polacco dalle spalle rotte dall’abbandono di intere nazioni. La seconda persona usata da Tomassini in tutto il racconto è tesa verso l’uomo amato di cui si diventa non spettatori ma compagni di strada. E il dittico composto da Sangue di cane (uscito nel 2010) e L’altro addio diventa il documento “in contemporanea” degli eventi probabilmente epocali: mette le nostre menti in attesa di una vita che sollevi dalla sanguinolenta bassura contemporanea.
2 febbraio 2018