Amélie Nothomb / L’arte impossibile del ritorno

Amélie Nothomb, L’impossibile ritorno, tr. di Federica Di Lella, Voland, pp. 106, euro 17,00 stampa, euro 8,99 epub

Viaggiare è difficile, tornare altrettanto, soprattutto per Amélie Nothomb, scrittrice il cui amore per Parigi ha trionfato, stabilendovi la propria residenza – lei nata a Kobe, in un altro continente, nel Giappone della sua infanzia, figlia di un diplomatico che la trasportò (quasi) ovunque nel mondo. Il verbo “tornare”, in questo caso, si traduce nell’essere trasportata in un aereo dell’Air France, con l’amica Pep Beni, verso il Sol Levante, raggiungendo il Giappone in maggio, nell’anno 2024 – “stagione delle azalee”. Pep è importante nella vita di Amélie, un premio assegnatole per il suo lavoro di fotografa (nello specifico, la guerra del Pacifico dalla parte dell’impero nipponico), consiste in un soggiorno giapponese per due persone. Per la scrittrice questa prospettiva significa una parola soltanto: panico. Dopo la pandemia, e il lockdown, sarà arduo sottrarsi alla volontà dell’amica. Amorevole, insistente, ricolma d’intenzioni e fervore. A undici anni dall’ultima volta in cui c’era stata, Amélie si sente in trappola. “Ben mi sta”, pensa – non può replicare all’affermazione di Pep che la definisce “grande sacerdotessa dell’elogio dell’ombra”. Tutto vero, chi conosce i libri (questo è il trentatreesimo) di Nothomb lo sa bene.

In questo nuovo lavoro la biografia diventa elogio dell’esistenza, e elogio delle lingue: un rituale preciso e limpido che riporta in superficie le complicazioni di viaggiatori della mente il cui essere sedentari non è che sublime accortezza vitale. Il giapponese ora per la scrittrice è “lingua fantasma” parlata fino ai cinque anni, poi “dimenticata” come fosse una marea ormai lontana dai tempi della risalita. Quel che accade nella sua mente, in proposito, è lacerante e duttile al contempo, è una visione continua che si fissa fino al momento in cui, su un aereo strapieno, sopra la Corea del Sud, un’aurora vera invade lei e Pep in attesa dell’imminente atterraggio a Osaka tradotto in ruote che toccano terra dopo la picchiata verso il mare. E tutto inizia. Raggiunto Kyoto, il vero viaggio è un airone sulla sponda di un canale in attesa che dalla finestra di un’osteria qualcuno gli passi la sua “razione” di cibo. La fame di Pep – nonché l’allergia (più timore che altro) per futon e tatami –, che è all’oscuro del cibo locale e dei modi di fare giapponesi, non dà tregua a Amélie.

Strade, templi, i segni della lingua locale, la benedizione a volte urticante dei ricordi, il caldo e l’umidità, i temporali, sono tutte eventualità purificatrici per l’anima, Nothomb se ne sente invadere e non se ne dispiace. Ma sa che la “Scorpacciata zen” del Ryōan-ji potrebbe essere una contraddizione. Il carattere “forte”, e occidentale, di Pep viene ammirato dalle giovani cameriere che apprezzano l’insolenza dell’amica verso il loro padrone. “Ciascuno ha il suo fuoco”, pensa Amélie, e questo vale sia per la fotografia che per i rapporti fra umani (e anche aironi). In questa situazione l’apparizione velata di Mishima sembra il centro di questo romanzo-memoir “on the air”. Se ti umilia la contemplazione dello splendore, lo distruggi. Il padiglione d’oro, letto in gioventù, invade le menti delle due amiche, e noi lettori a intervalli tratteniamo il fiato, ci innamoriamo della “brava guida”, e ci sentiamo istruiti sulla qualità del tempo che sosta nell’animo della scrittrice: il tempo tanto strattonato in quest’epoca militaresca post-pandemia. Virus e armi, la nemesi dei nostri Anni ’20.

L’intimità, derivante da L’impossibile ritorno, è fatta di una lingua che s’impregna degli incontri lungo la via, ombre (i fantasmi sono ormai parecchio lontani) ben salde al terreno nipponico, alla sua millenaria filosofia. Lingua che è sostanza vitale della scrittrice, molto prima di affrontare la pagina bianca, conscia di una vita propria che per niente al mondo dichiarerebbe esilio, ma se mai pellegrinaggio stabile in terra di Francia, e non in terra nipponica – se c’è una certezza nella prosa di Nothomb, è il suo modo di dare respiro all’intera filosofia del mondo, animali e umani insieme. Essere sulla stessa barca (se non tutti, in tanti) – il luogo amato presuppone sempre un luogo abbandonato.