Álvaro Estrada / Il documento di una tradizione millenaria

Álvaro Estrada, Vita di María Sabina. La sciamana dei funghi magici, tr. di Vittoria Di Qual e Maria La Torre, AnimaMundi Edizioni, pp. 215, euro 15,00 stampa

AnimaMundi, casa editrice di Otranto – che ha scelto Carmelo Bene e un suo motto “Bisogna essere visitati, è inutile cercare le cose” (ma noi prenderemmo in considerazione tra gli ispiratori anche il gotico Horace Walpole, quello de Il castello d’Otranto...), come orientamento per la definizione di un catalogo estremamente originale e interessante – ha da poco avviato una collana dedicata all’approfondimento e alla conoscenza delle sostanze psicotrope, “allucinogene” come con notevole approssimazione sono di solito chiamate, e alle “piante sacre”. E proprio la dimensione sacrale e religiosa emerge nel nome e nell’intenzione della collana che si chiama Enteogeni – come è spiegato nelle pagine introduttive a ogni volume, la parola «letteralmente significa “che ha Dio al suo interno”, e fu coniato all’inizio degli anni Ottanta da alcuni studiosi ed etnobotanici per riferirsi a piante o funghi usati nei rituali sciamanici tradizionali capaci di generare nel soggetto che le assume un’esperienza mistica e spirituale». Infatti il volume che inaugura la collana – che ci permettiamo di consigliare vivamente a chiunque sia interessato all’argomento – è proprio Enteogeni, alleati per la rinascita spirituale: linee guida per esperienze psichedeliche produttive e sicure, scritto da Ralph Metzner (1936-2019), psicologo e psicoterapeuta già pioniere nei primi anni ’60, all’Università di Harvard, della sperimentazione psichedelica a fianco di Timothy Leary e Richard Alpert, e prefato da Stanislav Grof, lo psichiatra ceco inventore della psicologia transpersonale e della respirazione olotropica. Vari classici sul tema si sono aggiunti in seguito a questo testo iniziale e programmatico, tutti importanti, tradotti per la prima volta in italiano o ristampati da vecchie edizioni.

A questa seconda categoria appartiene Vita di Maria Sabina, già pubblicato nel lontano 1974 da Savelli, patrono dell’Underground nell’Italia di quegli anni. Il volume non aggiunge niente all’edizione originale se non una mutipla introduzione dovuta a un quartetto di studiosi e intellettuali che molto hanno fatto in questi anni recenti per la corretta comprensione del fenomeno psichedelico: Giorgio Samorini, Piero Cipriano, Vanni Santoni e Nicola Lagioia. Quattro scritti che rappresentano un notevole valore aggiunto, insieme alla prefazione di Giuseppe Conoci, al testo originale e alla lunga presentazione del micologo e antropologo Gordon Wasson, lo “scopritore” (e per molti aspetti lo “sfruttatore”) di María Sabina. Un’indigena mazateca di disarmante ingenuità, rispetto ai nostri criteri occidentali di cultura, completamente analfabeta e incapace di parlare lo spagnolo.

È innegabile che Wasson, per interesse economico e sete di gloria scientifica, abbia gettato l’ignara curandera in pasto ai media occidentali, con foto e articoli su “Life”, tutta pubblicità per i suoi libri, rendendola famosa e creando il mito della sabia, della sciamana illuminata, riempiendo la sua casa presso Huautla, un villaggio nello stato messicano di Oaxaca, di hippies e turisti psichedelici, tutti gringos incapaci di comprendere il contesto culturale e religioso dell’assunzione dei funghetti sacri, il teonanàcatl, “la carne degli dei”, di attenersi alle prescrizioni rituali, l’astinenza sessuale per esempio, di riconoscere l’importanza del luogo e del momento, ma soprattutto  dello scopo: non curiosità intellettuale o “ricerca di dio” (questioni incomprensibili per un indigeno) ma “banale” diagnosi e cura di malattie concrete (attribuite ovviamente a spiriti maligni o stregonerie), in una società in cui praticamente non esiste una medicina “scientifica”.

Se Wasson ha volontariamente e interessatamente travisato María Sabina, almeno Estrada, messicano, mazateco anche lui (seppure acculturato e occidentalizzato, parlava ancora il dialetto della sciamana, i due si comprendevano, se non altro linguisticamente) ha cercato di far conoscere in una lunga intervista (il libro in questione) le parole effettive della donna. Ma anche in questo caso, meno “pilotato” e più limpido, quale reale risonanza hanno, alla fine, queste parole alle nostre orecchie “civilizzate”? Il mondo di María Sabina è remoto dal nostro, incomprensibile per noi, ciò che la sabia dice non ci appare poi così “saggio”, sembra piuttosto un elenco di sciocchezze e superstizioni, banalità e balordaggini. Il materiale grezzo, brutale, mancante dell’astuta concettualizzazione artatamente costruita, ad esempio, da un Carlos Castaneda, con il suo fortunatissimo A scuola dallo stregone (1968), e dalle decine di appendici e continuazioni che lo hanno seguito – l’epopea mistica di un presunto antropologo che incontra un presunto maestro indio, Don Juan, che lo inizia ad un inventato “esoterismo” sciamanico vendibile per gli occidentali, secondo criteri addomesticati e resi “digeribili” per la nostra visione del mondo – ci si rivela invece del tutto deludente, inutile e vuoto.

Specularmente anche a María Sabina, i “biondi” che tanto si interessano a lei, appaiono estranei, non necessariamente cattivi – qualcuno, pochi, anche gentile, dice, che le tengono compagnia nella sua vecchiaia solitaria e le offrono doni, molto spesso per lei del tutto inutili – ma sempre remoti, indecifrabili, contorti. La storia di María Sabina è una storia triste, la storia dell’incomprensione delle culture, la storia della colonizzazione, dove il forte annichilisce il debole e il debole è costretto a integrarsi o a scomparire. Così nei canti sciamanici dei sabios compaiono Cristo e la Madonna di Guadalupe accanto agli dèi autoctoni, in un fantasioso sincretismo, così i sacerdoti cattolici locali, dopo che la Chiesa per secoli ha represso e demonizzato i culti indigeni, hanno finalmente assunto posizioni tolleranti verso i curanderos, “brave persone che non fanno male a nessuno”. In realtà ognuno ha inglobato frammenti della cultura dell’altro come un corpo estraneo in un organismo diverso che, non potendolo assimilare o rigettare del tutto, lo neutralizza e lo confina in una propria area marginale e periferica.

Forse solo Samorini nella sua introduzione, comprende e rivela a pieno la dimensione tragica dell’esperienza di María Sabina, indigena vittima della colonizzazione, vittima dello sfruttamento e della commercializzazione della “coscienza espansa”, del Magic-shop (come cantava Battiato) dell’esotismo spirituale. María Sabina ormai alcolizzata negli ultimi anni (e non solo), assai poco sabia: innocua e solitaria vecchietta che accusa i “bianchi” di aver profanato il fungo, di averne provocato la perdita di potere, di aver scacciato gli spiriti. Ma un fungo è solo un fungo, l’alcaloide attivo che lo pervade, resta lo stesso per gli indigeni e per i “bianchi”: sono le rispettive menti, gli immaginari, i mondi, a essere troppo diversi, e chi ha davvero perduto il contatto, chi ha perduto il potere, non è il fungo ma solo lei, la povera María Sabina.