Un libro è come un abito. Disegno, taglio, tessuto. Poi, concepito il modello, la ricerca scrupolosa dei dettagli che, invisibili o volutamente ostentati, facevan la differenza tra l’eleganza surreale e surrealista di una mise Schiaparelli e il minimalismo sfrenato di un Givenchy anni Sessanta. Questione di stile. Da sempre. E se ai più ortodossi cultori della letteratura (con la elle maiuscola s’intende) la metafora apparirà scandalosa o, ahimè, troppo prona a una deprecabile frivolezza, basta la biografia di Jack Ritchie (1922-1983) a fugare recondite perplessità.
Quando da avido lettore decide di trasformarsi in munifico creatore di mystery tales, qualcosa deve pur avere inconsciamente appreso dal mestiere del padre, sarto nella natia Milwakee. Mestiere non tanto dissimile, per le ragioni suddette, da quello dello scrittore, poiché di uno stile l’autore di È ricca, la sposo e l’ammazzo fa da subito la sua griffe ineguagliabile. Sposando, sin dall’esordio negli anni Quaranta, un «taglio» classico e sobrio, la devozione per la cura e pochi singolari dettagli: un lavoro di sfrontata sottrazione, di hammettiana essenzialità grazie al quale far aderire naturalmente la prosa al corpo stesso del racconto e dei personaggi.
Umanità varia, in cui spiccano, con divertito cinismo, killer professionisti costretti a patteggiare con le vittime o, per gioco della sorte, con un agente del fisco, oppure a evitare il «lavoro sporco» di eliminare… nientemeno che se stessi. Ironia e humor nero. Stemperati da un’inattesa verve comica quando l’autore declina il racconto gotico in parodia (“Avanti il prossimo”) o in una gustosa ghost comedy (“Il ritorno di Bridget”). In questi quattordici esercizi di stile – un assaggio tra gli oltre cinquecento pubblicati, molti dei quali il «maestro del brivido» riadatterà per la serie TV Alfred Hitchcock presenta – Ritchie imbastisce brevi, fulminanti plot, scioccando il lettore con altrettanto brevi, fulminanti incipit. Frasi come stilettate, periodi confezionati con sartoriale precisione, senso del ritmo e, dulcis in fundo, del colpo di scena.
È in questo che Ritchie disvela appieno l’apparente leggerezza della sua arte: ogni racconto è un perfetto elegante meccanismo narrativo in cui tutto, alla fine, può ribaltarsi in virtù di una frase che ha la flagranza di un haiku. O di uno sparo.