Nisida, è un’isola. Tra le tante bellezze che decorano il golfo di Napoli, Nisida è l’avamposto più a nord, poco dopo Posillipo e Marechiaro. Ma è un’isola che si può raggiungere a piedi o in macchina, perché è collegata alla terra ferma da una fettuccia di asfalto e scogli. Dalle sue cime più alte si vedono benissimo le isole di Procida e, più lontano, di Ischia. Insomma Nisida è un posto incantevole, se non che, a metà degli anni Trenta, vi fu costruito un carcere minorile ancora attivo.
In questa “isola-non isola” un gruppo di scrittori napoletani hanno avviato diversi progetti con i giovani privati della libertà. Tra questi c’è Valeria Parrella, figura nota e stimata nel mondo editoriale e tra i molti lettori che sempre la seguono.
Parrella ha avuto la felice idea di scrivere un romanzo che parte proprio da Nisida e che ci racconta dell’incontro tra due donne: Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica nel carcere e la giovane Almarina, ragazza rumena che incontra durante il suo lavoro.
Da questo momento Nisida diventa metafora letteraria, anche se rimane quasi sempre sullo sfondo. Racconta della dinamica tra isolamento e integrazione nel mondo esterno che è oggetto di desiderio, speranza e frustrazione. In questo contesto, il concetto di “libertà” subisce a volte reinterpretazioni importanti: quando Elisabetta Maiorano entra in carcere, come prassi, deve lasciare in un cassetto il cellulare e la borsa. Attraverso questo rito di spoliazione, l’insegnante si assimila alla condizione dai giovani all’interno. Ma le capita anche, in più di una occasione e proprio in forza di questi obblighi preliminari, di sentirsi “libera”: dagli impegni e dalle sofferenze che fuori l’affliggono. Elisabetta Maiorano infatti è una donna sola. Tre anni prima ha perso il marito. Per difendersi da domande indiscrete e preservare la propria dimensione intima, circola solo con il passaporto perché sulla carta d’identità c’è ancora riportato “coniugata”.
Fin dalle prime pagine impariamo molto della scrittura di Parrella che racconta vicende in cui è capace di incastonare riflessioni che brillano agli occhi del lettore perché disvelano verità nascoste. Lo specchietto della macchina della professoressa Maiorano è stato spaccato da un posteggiatore abusivo. Perché? Perché lei non solo si è rifiutata di pagarlo, ma ha preferito dare i suoi soldi a un musicista di strada. “Abusivo anch’esso”, aggiunge per sottolineare come se il rifiuto verso il posteggiatore non fosse legato alla sua “illegalità” ma a una sua scelta di vita.
Elisabetta Maiorano non è una volontaria, semplicemente lavora. La prima volta che incontra Almarina è in tribunale. Tra loro solo uno scambio furtivo di sguardi. Poi però entra nella sua classe e scopre che c’è una nuova alunna, una sedicenne rumena, violentata e picchiata brutalmente dal padre. A quel punto la matematica smette di essere una fredda materia di insegnamento per diventare fertile canale di comunicazione. Le due donne iniziano a intendersi, a cercarsi, a capirsi.
La sensibilità di Valeria Parrella è la stessa di Elisabetta Maiorano che mette in campo sentimenti, ricordi, riflessioni che in controluce ci fanno vedere tutti i protagonisti della vicenda come esseri umani. Anche i più cattivi, i più antipatici, i meno interessanti sembrano essere sottoposti a uno scanner che restituisce loro il requisito più importante, che molti hanno perso, l‘umanità, nel bene e nel male.
Non si tratta però di un esercizio fine a se stesso perché, attraverso questo processo di umanizzazione, si aiuta il lettore a cogliere l’ottusa disumanità dell’istituzione carceraria. E ci rende facile seguire le tracce dei sentimenti che accomunano le due donne, in modo sempre più forte. La condizione che ci viene raccontata non ha però il sapore del miele. Elisabetta è una donna forte (e preparata) sa come intervenire per difendere Almarina dai suoi compagni maschi, nei momenti di sua debolezza. Anche Almarina è forte e smaliziata. Ha sofferto molto. Ha sofferto tutto. Sa quali sono le differenze tra lei ed Elisabetta. Non fa finta di niente, anzi insegna qualcosa, spiega, raccontata.
I corpi delle due donne entrano in gioco fin dalle prima pagine del libro. Sono il vestito dignitoso che l’insegnante indossa per rafforzare la sua reputazione e il ruolo che ricopre. Sono lo (stesso) smalto sulle unghie dei piedi che entrambe scoprono di usare. Sono la profonda ferita di un corpo abusato e maltrattato che occasionalmente viene rivelata dalla ragazza alla donna adulta. Sono anche la passione per i profumi che una rivela all’altra. C’è anche una riflessione sul desiderio di maternità.
Almarina, infine, è un libro potente che condensa in non molte pagine gioie e dolori forti. Si misura con la prova del riscatto e della salvezza delle protagoniste. Tutte e due. E la vince. Lascia un finale aperto. E sottolinea così che fuori dal carcere il mondo è infinito.