Di rave non si parla più, da un po’ di tempo a questa parte. Saranno i rigori dell’inverno…
La questione, tuttavia, è latente; per certi versi lo è sempre stata, se si vuole restituire un significato più ampio, e meno macchiettistico, al suo essere “underground”; in virtù di questa sua caratteristica, dunque, esprime un potenziale culturale e politico preciso, per quanto variamente articolato. Un potenziale che si può ora ripercorrere a partire da alcune vicende dell’anno scorso, ma ricordando sempre come queste non esauriscano il dibattito, né lo possano appiattire del tutto sul recente passato o sul presente.
Marzo 2022. Esce Free Tekno Movement di Virginia Giulia Vicardi per Argolibri, con la prefazione di Alessandro Kola e gli interventi di DJ Balli e Vanni Santoni – quest’ultimo già autore, dieci anni fa, di un libro, Muro di casse (Laterza, 2013), ambientato nel mondo delle feste elettroniche.
Dicembre 2022. Viene emanato il cosiddetto “decreto anti-rave”, con l’introduzione nel codice penale dell’articolo 434-bis, intitolato all’“Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”. L’iter del decreto legge era iniziato due mesi prima, con la fine anticipata di un rave in un capannone nella zona di Modena Nord.
Senza nulla togliere all’analisi della patina di interventismo, nonché degli interventi concreti e reali legati a quell’iter legislativo e al dibattito che ne è scaturito, lo scarto temporale risulta oggi significativo rispetto a quanto si può concretamente dire del saggio di Vicardi, seconda uscita della collana di saggistica “Rizomini” di Argolibri, a cura di Giulia Coralli e Francesca Torelli – a quest’ultima, in particolare, si deve anche il pregevole progetto grafico della collana, estremamente proteiforme e al tempo stesso in linea con gli accenti psichedelici del libro.
Il libro, infatti, non ha alcuna qualità reattiva, polemica o di instant book; si inserisce, invece, in un dibattito che è ormai piuttosto vasto sul free party, o sulla free tekno, dibattito che, tuttavia, sembra arrivato sugli scaffali delle librerie italiane nella fase più recente di questa storia culturale ormai quarantennale – forse, si potrebbe addirittura dire, nella sua fase di decadenza (nonostante o forse proprio per la recente rifioritura, soprattutto mediatica, dei rave nel periodo del post-lockdown). Da Energy Flash. Viaggio nella cultura rave di Simon Reynolds (uscito in originale nel 1998, tradotto nel 2000 per Arcana con il titolo Generazione Ballo Sballo e diventato primo libro di successo dell’autore in Italia, per essere poi riedito con il titolo attuale, di gran lunga più adeguato, nel 2010) a Rave New World. L’ultima controcultura (Agenzia X, 2018) di Tobia d’Onofrio, passando per un testo ormai classico dell’antropologia come Dallo sciamano al raver. Saggio sulla transe di Georges Lapassade (apparso per la prima volta nel 1976, variamente aggiornato e nuovamente edito, in italiano, per i tipi di Jouvence nel 2020), gli interventi e i contributi sono ormai moltissimi. Vicardi si inserisce in questa scia con uno sguardo particolarmente attento alle declinazioni artistiche del fenomeno, in linea con una pubblicistica anglofona ancora parzialmente inedita in Italia – come ad esempio Rave and Its Influence on Art and Culture dell’art curator Nav Haq, del 2016 – non mancando, però, di fornire anche interessanti spunti per la riflessione politica.
Free party e free tekno, ad esempio, sono definizioni del fenomeno da ritenersi, in genere, più corrette e fungibili. Come ricorda Vicardi nelle prime pagine del saggio, infatti, queste etichette sono più resistenti al tentativo di appropriazione, da parte di un certo marketing culturale, rispetto a quella di “rave”: se l’autrice parla di una dinamica perlopiù statunitense, ora questo tipo di marketing risulta facilmente importabile anche in Italia, visto che la “forma-rave” sembra essere forzosamente indirizzata verso canali privatistici e commerciali. Soprattutto, free party e free tekno sono espressioni che illuminano una doppia caratteristica di questi eventi: da un lato, la libertà e la gratuità; dall’altro, l’occasione della “festa”, un termine che, secondo Vicardi, è da intendersi primariamente in senso filosofico-antropologico. Si può facilmente ricollegare, infatti, alla storia della cultura popolare, e in particolare a quelle “epidemie della danza” che trovano attestazione, in Europa, sin dal 1374 e che sono culminate nella lunghissima “coreomania” di Strasburgo, nel 1518. (Lo racconta anche DJ Balli nel suo breve contributo iniziale, un gustoso “remix letterario” basato su continui salti temporali tra un passato apparentemente assai remoto e il presente).
Detto questo, Vicardi si concentra sulla dicotomia tra festa e teatro istituita dalla celebre Lettera sugli spettacoli di Jean-Jacques Rousseau, per il quale il teatro, a differenza della festa, non avrebbe avuto la capacità di cambiare i sentimenti o i costumi, dovendo invece preoccuparsi di seguirli e “abbellirli” per mantenere e ampliare il proprio pubblico, sia aristocratico che borghese. «Se le prime teorizzazioni di riforma societaria tramite la spettacolarità appartengono alla Francia pre-rivoluzionaria» continua Vicardi nella propria argomentazione «spetterà al Futurismo il compito di proseguire la codificazione di una teatralità altra». L’analisi dell’autrice prende quindi le mosse da questa ricerca di spazi e ritualità alternative a quelli del teatro allo scopo di rintracciare una serie di corrispondenze tra la storia del free party e varie eredità culturali del ventesimo secolo, includendo così nel proprio percorso figure e opere molto diverse tra loro come quelle di Marinetti e Russolo, dei dadaisti, di Artaud, del teatro di Jerzy Grotowski e Eugenio Barba, del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, arrivando fino alla Mutoid Waste Company e alla Fura dels Baus.
«Nella storia della musica e delle culture giovanili non era mai accaduto che uno stile di vita alternativo venisse vietato dalla legge», aveva già scritto Tobia d’Onofrio in Reve New World; Vicardi aggiunge che la controcultura del free party – pur frequentemente osteggiata a livello legislativo e poliziesco (non solo in Italia, ma già in origine, nell’Inghilterra post-thatcheriana) – ha comunque inglobato o avuto relazioni fondamentali con fenomeni artistici e culturali altrove ritenuti di avanguardia, oppure, come nel caso della Fura dels Baus, di grande successo per il pubblico cosiddetto “mainstream”.
Questo paradosso riverbera anche su un piano più squisitamente politico. Come scrive sinteticamente Vanni Santoni nella sua brevissima nota introduttiva, «la cultura rave è stata il frutto di una fortissima tensione sincretica, in cui il “no future” e l’autoproduzione del punk ha incontrato la psichedelia e il nomadismo degli hippie, si è appropriata della musica elettronica nata per i club e l’ha sublimata con l’idea tutta giamaicana del soundsystem portatile come strumento di riappropriazione dello spazio pubblico, incontrando nuove suggestioni estetiche e performative nella cibernetica, nel neo-tribalismo e nel transumanesimo».
Tale sincretismo ha luogo quasi sempre in una forma ora più, ora meno affine alle “zone temporanee autonome”, o TAZ, teorizzate da Hakim Bey, e più o meno in parallelo rispetto alla moltiplicazione, in Italia, dei “centri sociali occupati” che con le TAZ hanno flirtato forse non molto concretamente, ma a lungo (si ricordi, a questo proposito una delle migliori trollate di Luther Blissett, con la pubblicazione di un falso Hakim Bey per Castelvecchi, nel 1996) – ma hanno avuto anche una consistente influenza sulle forme di contestazione politica successiva, ad esempio con le manifestazioni reclaim the street e, in genere, con l’utilizzo dei soundsystem nelle street parades e nelle proteste di piazza.
Eppure, una delle critiche più sferzanti della controcultura rave viene dal Sermon au raver (“Predica al raver”)*, pubblicato nel 1999 sul primo numero di Tiqqun: il testo si conclude con l’auspicio che l’energia dispersa, lo spreco nel senso dei Bataille, dei rave sia dispersa, o incanalata, altrove. Questo, in realtà, è sempre successo – a dispetto tanto della repressione di marca conservatrice, da una parte, o della critica teoria politica destituente, dall’altra – e continua a succedere, per quanto in modo latente, temporaneo, nomadico e ancora, forse, difficile da comprendere nella sua interezza.
* Chicca per ispanofon*: quindici anni dopo la sua pubblicazione, il “Sermone del raver” è diventato materiale per una gustosa e vagamente dissacratoria produzione multimediale del gruppo Los Voluble, in collaborazione con il musicista e cantante Niño de Elche, dal titolo di RaVerdiales – dove, cioè, i rave sono mescolati con la manifestazione religiosa, tipicamente andalusa, dei verdiales… Passando, come sempre, da una festa all’altra.