Per una donna non poter procreare in un Paese come l’Iran equivale a tradire le aspettative della famiglia e della società. Mani sente un peso indescrivibile sul cuore quando comprende che la sorella non può avere figli perché è stata la sua gemella nell’utero materno, perché hanno condiviso la stessa placenta e, solo per un capriccio della natura, è diventata “una cosa a metà fra la femmina e il maschio”. Per di più, all’inizio del libro, sembra che la sorella dall’incerta identità sia scomparsa. Si apre così Ventre sepolto di Aliyeh Ataei, in una pluralità di voci fra le quali appare difficile orientarsi, in uno scenario di generale smarrimento. Il luogo è una Teheran grigia e caotica, sterminata e triste, che solo nella memoria può stagliarsi sullo sfondo di un cielo azzurro. Qualcuno tiene una cartella di ricordi collezionati percorrendo in taxi le ampie prospettive urbane, e chi scrive non può non ricordare il film di Panahi premiato a Berlino nel 2015, dove le testimonianze dei passeggeri costruiscono il mosaico di un Paese oltremodo contraddittorio.
La grande città pullula di disoccupati. Ataei descrive una realtà nella quale tutti corrono a lisciarsi i potenti per riempirsi le tasche. Mani è ossessionato dai calcoli, una tara che gli deriva dalla professione di ingegnere. Osserva le persone per strada e ne vuole indovinare il numero, come per mettere ordine in un mondo dominato dal caos. Una realtà nella quale molti abdicano al linguaggio per comunicare a gesti; quasi una forma di regressione, o una maniera per proteggersi da qualcosa che li minaccia. Mani e la sorella condividono la stessa anima e un segreto; la loro vera madre è morta dandoli alla luce. Un profondo senso di sradicamento lo scuote: “dove potremmo andare noi?” Non conosce la provincia dalla quale provengono, ma è condannato a vivere nella città tentacolare dove tutti appaiono uguali, dove tutti si perdono, perché “perdersi è la cifra dell’uomo moderno”. Alcuni nascono per vivere prigionieri, la libertà li spaventa. I protagonisti sentono le catene che gli legano mani e piedi. “Quando hai le tasche vuote, nessun posto è casa tua”. Un delirio inarrestabile agita la mente di Mani. Ai suoi occhi solo la sorella, con la sua semplicità e la sua vocazione ad aiutare chi si trova in difficoltà, è diversa dagli altri, solo lei, che somiglia all’Amélie del film francese, possiede un autentico sguardo innocente. Da reale la ricerca diviene interiore.
Mani sente dentro di sé una sensibilità femminile. Anche lui non può procreare. L’indagine sulla sorella gemella si tramuta in un percorso esistenziale, in un guardarsi allo specchio con inesorabile crudezza. L’orologio del bisnonno che non riesce a vendere rappresenta una necessità concreta, in quanto Mani ha perso il lavoro, ma è anche il simbolo delle radici minacciate. Le aspettative degli altri costituiscono un peso insostenibile. Molti riconoscono a Mani qualità straordinarie, persino la stoffa del poeta. Come si può essere poeti con un linguaggio così insidioso, nel quale le parole adombrano significati diversi per ogni persona? Un poeta “è uno che non sa tenere la lingua a freno”, e ci sarà sempre qualcuno che gli chiederà conto delle sue parole. La sorella, né adulta né bambina, è un’ombra che oscilla dietro un chador, è un enigma insolubile. Il dolore lacera l’anima di Mani. La droga rappresenta un sollievo effimero, le cui conseguenze conducono al sanatorio. La famiglia e la vita intera vanno in pezzi. Perdere una sorella gemella significa abdicare a una parte di sé stessi. Vi è sempre una metà che manca per essere completi, “è questo il dilemma dell’uomo contemporaneo”. Romanzo straordinario questo di Ataei, sorta di inarrestabile flusso di coscienza all’interno di un’anima e delle sue più segrete ossessioni.