Chissà perché, la maggior parte di noi lettori, ai racconti preferisce i romanzi. Quasi che i racconti fossero dei romanzi lasciati a metà, oppure troppo condensati per essere soddisfacenti. E spesso i racconti sono così. Anche se ci sono tante eccezioni. E c’è sicuramente un’eccezione luminosa e splendente, che è Alice Munro.
Alice Munro che se ne è andata qualche giorno fa. Anche se in realtà se n’era andata prima, quando si era ammalata e aveva smesso di scrivere, aveva dovuto smettere di scrivere. Per la sua capacità di scrivere racconti che soddisfacevano anche i più restii lettori di romanzi, aveva vinto il premio Nobel. Con la motivazione che sapeva “racchiudere in poche pagine l’intera complessità epica del romanzo”.
Alice Munro che diceva di aver cominciato a scrivere racconti perché erano la sola forma compatibile con la sua vita, i quattro figli e la campagna. Che si riprometteva di scrivere un romanzo, quando finalmente sarebbe stata libera. E che non ci era riuscita, come con insolita modestia aveva raccontato. E che ci lascia il sospetto che quella forma, il racconto, le permettesse in realtà di narrare di più, di mettere in luce l’enorme varietà delle vite e delle persone, di trasmettere la ricchezza, l’abbondanza, la messe di emozioni e sensazioni che ogni vita racchiude.
Alice Munro che diceva che una storia non è come una strada da seguire, ma è come entrare in una casa, esplorare le stanze, la relazione che queste hanno l’una con l’altra, e i loro mobili e soprammobili, le persone e le loro vite. E dall’interno di quella casa guardare il mondo fuori, il modo in cui viene inevitabilmente alterato da quello sguardo. E non credo che si potrebbe trovare una definizione migliore.
Con la sua scrittura nitida e precisa, per noi meravigliosamente tradotta da Susanna Basso, Alice Munro ci racconta infinite vite. Le più diverse. Banali, semplici, apparentemente lineari e improvvisamente accese da un imprevisto, da uno slancio o da una caduta. Illuminate da un punto di vista diverso, inimmaginabile finché non lo si vede sulla carta, e indispensabile da quel momento in poi. O anche vite bizzarre e difficilmente comprensibili, dentro le quali l’universale respiro dell’umanità trova il suo posto. Vite per lo più canadesi e dunque un po’ plasmate da un paese grandissimo e poco abitato, pieno di alberi e acqua e di una natura che ci sovrasta, con un clima estremo e dalla bellezza strepitosa e crudele.
I racconti di Alice Munro sono dei romanzi in miniatura, con lo stesso ritmo, gli stessi sviluppi e la stessa fondamentale incompiutezza del romanzo, che lascia per fortuna a noi lettori il compito di riempire gli spazi che si sono aperti per la nostra immaginazione, e di dare dei volti, delle voci, della corporeità a quelle parole che ci raggiungono così lievi e così reali. Sono una lettrice tardiva, di Alice Munro. E ho cominciato a leggerla in Scozia, la terra delle sue origini raccontata in La vista da Castle Rock. E poi ho continuato, perché c’è nei suoi racconti una continuità, una coerenza, tali per cui dopo averne letto uno si passa a un altro, finché il libro non è finito, e poi si fa lo stesso con un altro libro. Si ha la certezza che ci sia un legame tra quei racconti, che siano parte di un tutto e non dei mondi a parte. E questo tutto è la scrittura di Alice Munro, o meglio la voce di Alice Munro. Una voce che assomiglia al sorriso con cui è quasi sempre ritratta. Gentile. Vagamente ironica. Calda. Affettuosa. Limpida. Chiara. Una voce con cui ci conduce dentro quelle case nelle quali ci permette di camminare e osservare. Starà a noi essere capaci di cogliere l’universale, il battito che ci accomuna. Lei, Alice Munro, ci accompagna sulla soglia di tutte queste case e ci tiene aperta la porta. Continueranno a farlo i suoi libri, per noi e per quelli che verranno dopo di noi.