Alexander R. Galloway è un pensatore anomalo e originale. Di formazione letteraria e allievo di Fredric Jameson, si occupa attivamente di software design e di videogames, oggetti ben presenti anche nella sua riflessione più strettamente filosofica. Leggendolo si ha spesso l’impressione che l’ordito della cultura cibernetica emerga da una trama critica deleuziana. Il controllo di skill tecnici e speculativi emerge in modo caratteristico anche nella riflessione che porta avanti in Uncomputable (2021), il suo libro più recente, ora tradotto dal collettivo Ippolita per la collana Culture Radicali, il secondo (meritoriamente) pubblicato in Italia dopo Gaming (Sossella, 2022), un testo ormai di alcuni anni fa.
Incomputabile si presenta in prima lettura come il tentativo di storicizzare il digitale, per lo meno all’interno del pensiero occidentale, a partire dal mito di Clitennestra, dalle “perfide reti” di intrighi che la moglie di Agamennone intesse e oppone a quelle efficienti e trionfali che guidano il ritorno in patria del marito. Digitale non vuol dire binario e la discretizzazione che mette oggi fuori gioco l’umanista medio per Galloway non è stata una marcia trionfale, un corso irreversibile né una scoperta del tardo capitalismo. Il digitale ha instaurato in epoche diverse una dialettica con ciò che computabile non è – affetti, corpi, desideri. L’incomputabile del titolo, appunto.
Per tre quarti del libro Galloway persegue precisamente questo obiettivo dichiarato, concentrandosi sui rami divergenti dell’episteme digitale, ripercorrendo all’inverso l’albero delle tecnologie, soffermandosi soprattutto sulle “invenzioni che non hanno cambiato la storia” e su episodi poco noti del progresso computazionale. Vengono analizzate per prime le applicazioni ottocentesche della fotografia volte alla modellazione dello spazio, e non del tempo, che inventori come Londe, Baume e Fisher prospettano in alternativa all’immagine cinema di Muybridge, Edison, Lumière. Galloway esamina poi nel dettaglio tecnico le origini della programmazione tra i primi telai tessili della rivoluzione industriale, in un arco storico che nel giro di qualche anno porterà alla Macchina Analitica di Babbage (mai realizzata dal suo ideatore) e alle concettualizzazioni visionarie di Ada Lovelace sulla programmazione che – passando dalla casella Sadie Plant – teorizzano il primo computer della storia. Il nodo della programmazione con la tessitura emerge anche con un’altra Ada, Ada K. Dietz, insegnante di matematica in pensione, che nel secondo dopoguerra americano disegna nel suo laboratorio texture generate da algoritmi e funzioni algebriche. Casualità o meno, il suo inatteso successo è più o meno contemporaneo alla pubblicazione di Cybernetics: Or Control and Communication in the Animal and the Machine, il testo base di Norbert Wiener che definisce i fondamenti della cibernetica, la scienza che studia congiuntamente l’informazione scambiata da umani, animali e macchine. Se l’informazione, da poco definita da Shannon, non è il significato la cibernetica a sua volta si occupa di emittenti, riceventi, reti, segnali, rumore e non di semantica: “La cibernetica ridisegna il mondo come sistema e il soggetto come agente”.
Galloway sa perfettamente come di qui in avanti la progressione verso la “società cibernetica”, denunciata ad esempio dal collettivo Tiqqun all’inizio di questo secolo, possa apparire retrospettivamente inevitabile come il progresso descritto da Silicon Valley o, alternativamente, la dorsale psichica del realismo capitalista. Per questo forse preferisce guardare agli eventi storici di sguincio, attraverso i giochi e le strategie di guerra, quelle vere dei generali che teorizzano per la prima volta la guerra asimmetrica e quelle ludiche come i war games ideati da Guy Debord nell’ultima fase della sua vita. O attraverso la prima simulazione di Artificial Life, la biologia ipotetica di Nils Aall Barricelli, un matematico italo-norvegese oggi forse dimenticato, che nei primi anni Cinquanta si conquista la fiducia di John von Neumann e l’accesso a uno dei primi calcolatori mainframe.
Nell’ultima parte (“Scatole nere”) il filosofo americano prova a tirare le fila del discorso virando verso il presente. Incomputabile non è il libro dove troverete la prossima Teoria Generale del Tutto ma nemmeno, semplicemente, l’acuta disamina delle oscillazioni storiche tra analogico e digitale, discreto e incomputabile. Secondo Galloway i movimenti nati dal ’68 hanno a lungo frainteso la natura delle reti per non dire la natura reticolare del nuovo capitalismo, scommettendo sull’autonomia di reti decentrate, interattive, “a due vie”, ecc., contro il presunto monolite della “centralizzazione”, del broadcast, del grande fratello, e così via. La “tragedia dell’interattività”, come viene chiamata nel libro, è che questa idea di “alternativa” diventa, al contrario, rapidamente il mantra dell’establishment economico e la chiave operativa delle moderne società globalizzate. Quando nasce Arpanet, il progenitore di Internet, connettendo alcuni server in una rete in grado di sopravvivere a un possibile attacco nucleare, la centralizzazione era in realtà già morta e sepolta insieme a Hal 9000. Al suo posto, la logica delle “black box”, che considera esclusivamente input e output del processo, non solo non presuppone un centro ma non presume neppure di dover conoscere l’architettura interna dei singoli nodi, quello che succede “dentro alla scatola”. Non c’è essenza o natura nella black box: discriminanti sono solo i protocolli di comunicazione – TCP, API, ecc. – per accedere o essere esclusi da un mondo di funzionalità. Se l’interfaccia nasconde oggi la negatività di un confronto completamente asimmetrico tra il digitale e l’offline, “una binarietà così sbilanciata da trasformarsi in una sorta di monismo sorvegliato”, la politica d’altro canto non può più indicare una via di uscita attraverso la dialettica del tempo o dello spazio. Non si tratta di decodificare la scatola nera – con Freud e con Marx – ma di riprogrammarla. Si tratta di assumere a nostra volta una postura da scatola nera e porre direttamente la questione dell’essere. “A chi è permesso di essere? E chi può prosperare a spese di altri che non possono farlo?”