Alex Irvine / Ma le AI sognano di divertirsi?

Alex Irvine, Antropocene Boom, tr. Andrea Cassini, Zona 42, pp. 256, euro 15,90 stampa, euro 7,99 epub

Antropocene Boom (Anthropocene Rag) di Alex Irvine è un piccolo grande romanzo americano post-apocalittico, un “western nanotecnologico” – questo il suo titolo secondario – che non appartiene a nessun filone distopico conosciuto. Il suo modo di procedere, per restare sui registri classici, potrebbe ricordare Hello America di Ballard riscritto da Vonnegut o forse da Douglas Adams, se solo Alex Irvine – classe 1969, un “Locus” (premio annuale per il miglior romanzo di fantascienza, assegnato dall’omonima rivista statunitense [N.d.R.]), una lista di premi accumulati per racconti e romanzi sci-fi e fantasy e una ancora più lunga di licensed work (dai Transformers a Star Wars, da Batman ai supereroi Marvel) accreditati nel suo day job – si degnasse di assomigliare a qualcun altro.

La storia: siamo in un futuro cronologicamente non troppo lontano dal nostro ma completamente trasfigurato dall’avvento del Boom, una singolarità sopravvenuta a seguito di un esperimento sfuggito di mano e finito male. Qualcuno ha pasticciato con le nanotecnologie e adesso i microscopici nanobot intelligenti possono essere dappertutto, nell’aria che respiri, nel cibo di cui ti ingozzi o nei pensieri che ti vengono in mente. Costrutti umanoidi appaiono e scompaiono, assumendo temporaneamente le sembianze di Abramo Lincoln o di Mr. Smith o di tua mamma. Il Boom, la mega entità AI che tutto connette e tutto può – compreso farti scomparire da un momento all’altro, riportarti in vita come zombie “nanotech” o fare di te un ibrido metà bisonte, se solo decide che va bene così – ha preso in mano gli Stati Uniti per configurarli secondo un disegno piuttosto capriccioso e, in generale, incomprensibile per gli umani superstiti, per lo più aggrappati a qualche scampolo di normalità. Il Boom, insomma, non è né buono né cattivo, solo troppo impegnato a far succedere cose bizzarre e pericolose per preoccuparsi di bazzecole, tipo cosa possa pensarne tu.

Sei personaggi alle prese con difficoltà più o meno quotidiane o insormontabili, a seconda dei punti di vista, ricevono dal Boom l’invito a raggiungere Monument City, una zona mitologica di interregno nel grande casinò polimorfo che è ora l’America. Ammesso esista, tutte le storie su questa città, per quanto assurde e contraddittorie, sono anche vere – assicura il messaggero del Boom, un pistolero vestito come un vecchio cercatore d’oro del 1849. I sei sono, per brevità, un’artista mutaforme, una commessa annoiata, una schiava in fuga, un ladro mitomane, un postino cristiano credente e un meccanico mussulmano. Nel corso della vicenda si scoprono anche essere tutti orfani. Il loro viaggio verso la Zona, in battello sul Mississippi e attraverso il Midwest, li porta a incontrare i protagonisti, veri e leggendari, della storia americana, impersonati da AI con le sembianze di Henry Ford e Sal Paradise, Paul Bunyan e Fratel Coniglietto, Mark Twain (addirittura doppio) e il già citato Scott Joplin. Dietro all’oscuro invito, del resto, c’è anche Phineas Taylor Barnum in carne e ossa, o forse non proprio.

Nell’Antropocene di Irvine non c’è tempo per l’apocalisse, il mondo è un Assurdistan con cui quasi tutti sono già scesi a patti, rinunciando a qualsiasi forma di agentività. Alla remissione delle coscienze organiche fa da contraltare, tra il timido e il grottesco, l’imbarazzato emergere di una coscienza artificiale, affascinata dalle storie e dalle trame del simbolico di cui gli umani, ai loro occhi, sembrano ancora portatori.  Nel viaggio degli orfani si confrontano i punti di vista dei protagonisti – che si aspettano risposte, disabituati come sono a porsi domande degne di questo nome – e delle AI, interessate esclusivamente a queste ultime, visto che le risposte le hanno già tutte. E non potrebbe fregargliene di meno.