Alessio Torino / Dentro il “tempo degli spettri”

Alessio Torino, Cuori in piena, Mondadori, pp. 336, euro 20,00 stampa, euro 10,99 epub

A Pieve Lanterna, un borgo immaginario dell’Appennino umbro-marchigiano, nei pressi del fiume Burano – che invece esiste, nella zona di Pesaro e Urbino – un dodicenne trascorre l’estate forse più importante della sua vita, quella che molti hanno o credono di aver vissuto, dopo la quale non si è più come prima. Un’estate che come un’accetta taglia giorni sereni da altri mostruosi. Dove si è costretti a imparare di cosa è capace un uomo e quanto siamo vulnerabili e fragili.

Cuori in piena, il nuovo romanzo di Alessio Torino, è una storia di formazione adolescenziale ambientata alla fine degli anni Ottanta, prima del crollo del muro di Berlino. Come in Stand by me di Stephen King, l’evento centrale, avvenuto fuori campo, è la morte di un bambino coetaneo del protagonista, annegato nel fiume l’anno precedente: un’ombra lunga e appiccicosa che insinua la paura e la presenza dell’ignoto (quelle cose che accadono anche se non dovrebbero) nei pensieri di bambini che stanno per diventare adulti e fingono di vivere quel passaggio con sfrontatezza.

È un peccato che lo spunto iniziale –  il divieto posto dal padre al figlio di tuffarsi nel fiume, alla Caldare, dove è morto quel ragazzo – nel corso della storia un po’ si perda e sia poco sfruttato narrativamente per definire l’emotività del protagonista, scisso tra l’amore (il primo) per l’inafferrabile Céline (che parla solo francese e quindi il flirt tra i due è per lo più silenzioso, fatto di sguardi, mani che si toccano, segni e indizi non sempre reciprocamente compresi) e l’attrazione verso Arcangelo Gori, il padre del bambino morto, diventato una sorta di mina vagante a Pieve Lanterna. Gori è l’anti-protagonista, l’uomo che si è perso, che urla il proprio dolore, che non ha superato il lutto, che va alla ricerca delle aquile e dei fossili, lui stesso fissato e materializzato per sempre in un determinato tragico passato. Solitario e ubriacone, incute timore ai ragazzi e ancora di più agli adulti. Rappresenta qualcosa da cui non si può scappare, turba il corso seppur poco naturale delle cose perché non accetta di riprendere la rappresentazione del quotidiano. A ridurlo così non è stata solo la morte del figlio ma sono anche i fantasmi mai placati dell’adolescenza, delle ingiustizie subite, della paura. All’adolescenza del protagonista fa infatti da contraltare l’adolescenza di suo padre, vissuta a Pieve Lanterna con Arcangelo Gori e con i padri dei suoi amici. L’amicizia tra i ragazzi – tutti rigorosamente maschi – è il minimo comune denominatore tra le due generazioni, entrambe raccontate nell’età in cui il mondo maschile e quello femminile sono (e irrimediabilmente) scissi e si incontrano solo agli autoscontri, nella giostra dei calci in culo, in coda per lo zucchero filato e a fare il bagno lungo il fiume. Amicizia e solidarietà ma anche rivalità e prevaricazione, in un universo piccolo e protetto (fino a un certo punto, perché i pericoli arrivano dall’interno) come quello di un paese appenninico dove nessuno si fa i fatti propri, tutti guardano tutti e si giudica un uomo da quanto ordinata è la catasta di legna nel suo cortile.

L’universo femminile è fatto solo di nonne e nipoti. Le madri sono pressoché assenti, le ragazzine sono esseri misteriosi con impulsi e desideri che il protagonista non comprende e che lo scombinano: “Ero proprio come un cane nel giorno in cui scopre la neve e non si raccapezza più di niente”, pensa invaso dal pensiero e dall’attrazione per Céline. Anche il rapporto tra genitori e figli è più che altro il rapporto tra figlio maschio e il padre: interrotto per i Gori; difficile tra i due amici del protagonista, Achille e Giorgio, e i rispettivi padri; positivo invece, tutto sommato, tra i due Corsi, il protagonista (di cui ignoriamo il nome) e il padre Sebastiano, che compare in presenza all’inizio e alla fine del libro mentre in tutta la parte centrale è a distanza, a Roma, all’altro capo della cornetta nelle ricorrenti telefonate serali con il figlio.

In tutto quel “tempo degli spettri”, dove la morte di un coetaneo è qualcosa di inesplicabile e fuori luogo e dove la paura è ancora quella dei bambini, il cuore trabocca emotività, è un cuore non fortificato – come dice il re di Danimarca ad Amleto, ricordato nell’epilogo del libro. Ma, d’altra parte, essere fortificati significherebbe non sentire nulla, e quindi chi come il protagonista non finge maturità e freddezza e ha imparato a usare il “forse” sin dall’età dei sei anni, possiede una forza destinata a durare. “Anch’io avevo paura, ma almeno non me lo nascondevo, e questo mi dava quell’unica forza in più rispetto a Giorgio, per quanto possa sembrare strano. Avevo visto il riflesso di Andrea Gori nell’acqua, ma potevamo esistere entrambi. Per Giorgio, no. Quel coglione, aveva detto suo padre, per escluderlo dall’orizzonte degli eventi e ricacciarlo nel buco nero. E anche lui, parlandone la prima volta quando mi aveva detto della piena, aveva sottolineato il tuffo maldestro troppo vicino al getto, come se la questione potesse ridursi a una mancata accortezza e non alla morte in sé.”

Se la liberazione dalla paura è forse impossibile e i fantasmi continueranno ad abitare – mascherati da qualcos’altro – lo spazio accanto agli adulti, nel giovane Corsi l’imperfezione della vita sarà quantomeno resa più mite dal percorso di conoscenza del padre che non a tutti, negli anni dell’adolescenza, è dato: “Andavo verso una meta che non esisteva, ma era lì che mio padre mi aveva comunque raggiunto”.