“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”: così, “al sommo d’una porta”, pareva ammonire Sergio Fava in quel tondo 2000 quando, a distoglierci dai nostri fiacchi sbadigli di magri/gravi tardi e attardati figli di un Novecento sfinito, apparve, maceriale sonata a morto, ‘l mal de’ fiori di Carmelo Bene. Firmandone infatti la quasi apologetica nota introduttiva, Fava già licenziava i disgraziati studiosi che si sarebbero provati nella critica del “poema impossibile”, indicandoli falliti e impuniti oltraggiatori della “macelleria” beniana ancor prima di vederli nascere. E due anni sarebbero ancora trascorsi e altre venti lacrime dal 16 marzo 2002 allorché, dimagrato in pietra, Bene salutò la folla dei “non-vivi alla morte” e dei “non-morti alla vita” per riconsegnarsi, finalmente, a quel nada che in ogni modo aveva rincorso, anelato e declamato: giacenza nell’inorganico contro l’impotente sciagura del biotico. Complice il dito di Fava, complice la riverenza che si destina al genio, è davvero accaduto, in poco più di due decenni, che nessuno studioso abbia osato una finale chiave a ‘l mal de’ fiori, una lente capace di gettar luce su ogni enigma sedimentato, una cinta d’assedio alla “scrittura della voce” per scioglierne nodi, poetica e cimiteri: pettine e coraggio e vanga non pervenuti. Due le ipotesi: la traversata potrebbe essersi rivelata titanica e impervia per qualche semplice marinaio di chiatta, troppo abituato a rimorchi e bussole altrui; oppure, ancor peggio, è accaduto di liquidare Bene-poeta come soverchio e fuor di binario, eccesso di metastasi al già martoriato corpo della “bella forma” lirica, quella che fu signora di metro e buretta e finita zitella nel secolo dei tramonti.
Tuttavia, nell’anno 22 dopo ‘l mal de’ fiori, finalmente un Virgilio che può, con merito, vantare la prima rifinita critica al poema: Alessio Paiano, nato anch’egli in Terra d’Otranto, quel “Sud del sud dei santi” visionario e barocco di Nostra Signora dei Turchi, raccoglie il fardello di un testo impraticabile e, cavando tra rovine e iatture di un linguaggio impossibile, ne dissotterra la voce con grazia e la cura archeologica che si deve al monumentale. La scrittura dell’autore infatti (sobria, lucida, quasi autoptica nei suoi tagli precisi e mai maldestri) lastrica, pagina dopo pagina, sentieri laterali all’inferno dei segni beniani e solidi ponti sulla vertigine, tanto illuminanti da condurre il lettore illeso, se pur provato, alla fine del viaggio: chiarezza che domina l’abisso. Mattoni, funi e puntelli di Paiano sono la storia delle lettere, la linguistica, la filologia, la filosofia, la teologia, l’arte figurativa e teatrale, ovvero tutto l’umanistico che Bene ha compulsato e rimasticato per una vita intera facendone rizomi, sarmenti e bile, disseminati generosamente nel poema; a ciò s’aggiunga (e non a caso Paiano è nella triade leccese che guida il “Centro Studi Phoné”) la profonda conoscenza (vitaccia, non-vita e prematuri miracoli) del delirante Carmelo-fuori-di-sé, fuori-del-mondo e delle sue rappresentazioni.
‘l mal de’ fiori, ci informa Paiano nella ricca Introduzione, nasce nei giorni della piena maturità espressiva di Bene e che il caso (niente ‘fato’ in questa sede) ha voluto coincidenti con i giorni della fine: la fine del secolo (e d’ogni sua ecatombe) e la fine di Bene stesso. Due fini in un corpo solo. Dieci furono i mesi spesi nel totale isolamento nella casa otrantina, pane secco e caffè l’unica fonte d’energia per non soccombere, non ancora, alle vigliaccate della chemioterapia e al cancro che gli divorava voce e interiora, “per cui”, segnala Paiano, “oltre all’impresa artistica […] c’è spazio per le paure più inconfessabili, tanto che […] dichiara più volte il timore di non riuscire a terminare la sua opera in tempo”. “Un dolore”, continua, “direttamente riversato sulla pagina” e complice insperato di questo capolavoro dell’irrappresentabilità.
Le fatiche di Paiano, nel corpo a corpo col poema/testamento, non si contano. Quello che l’autore ha dovuto compiere è una vera e propria vivisezione di un testo impenetrabile con le comuni logiche della semantica, gravato inoltre dalla babele di lingue e dialetti che Bene gioca insieme al più radicale dei decostruzionismi: unico imperativo del poeta è lacerare il senso nella moltiplicazione, sottrarsi alla dialettica chiara e distinta, farla finita con l’intelligibile e il comunicabile, troncare quindi i lacci tra significanti e significati defenestrando, una volta per tutte, Socrate e il logos dal palazzo d’Occidente. “Il poeta”, scrive Paiano, “è solo un balbuziente che non sa più dire” e che dell’inciampo, del ruminarsi addosso, del rigurgito dei segni ha fatto le sue cifre: tutto è scarto ne ‘l mal de’ fiori, è dis-dire, depensare, eccedere la misura, poiché la voce che scrive risuona dal fondo di un soggetto smarrito che intende risolversi nell’afasia, nell’estatico svuotamento del sé, nell’aborto dell’identità e della storia come sua narrazione.
In questo lazzaretto di ragioni mutilate, Paiano ci accompagna fino al letto del baratro del poeta che, sfiorendo di carta in carta, si incammina, per sottrazione, verso la sua finale amputazione. Per prima cosa, l’autore costruisce dei binari tematici per impedire al lettore di precipitare nel vacuum “di una trama narrativa sempre rimandata” e nella spirale dei non-detti e dis-detti: nove sezioni per nove gironi; successivamente, dantista, procede nel lavoro critico: ciascuna parte del poema è analizzata, vetrino e paraffina, al microscopio per rintracciare la natura di ogni “guasto” lessicale e, tanto nel ricco argomentare dei paragrafi, quanto nelle note copiose di informazioni e fonti (beniane e di Bene), Paiano ricostruisce il filo dismesso e protesi di sostegno al linguaggio azzoppato, destinato a immiserirsi di pari passo con l’implacabile immiserirsi dell’Io. Con questo straordinario e perifrastico lavoro di rammendo, il poema difatti procede nell’annichilimento graduale del soggetto che taglia in sequenza ogni refe che lo lega al mondo e alle sue abiezioni, degradandosi, infine, a “eco di un’assenza”, al delirante “non essere più in casa” dei mistici di cui Bene invidiava gli “idioti voli”. Tuttavia, ciò è solo propedeutico alla finale dissoluzione: con lo spirito ridotto a fondo di magazzino, infatti, Bene “vuole […] perseguire un’idiozia estrema: non gli basta […] giungere al vuoto, ma diventare tutt’uno con l’abisso anelato”, sabotarsi anche il corpo dopo aver reciso i fili della macchina pensante e, complice la malattia che si fa “occasione da cogliere per il Bene-poeta”, finirsi in disquartata carcassa e scempiata carogna: chiudere i conti anche con l’organico. E qui, in “un’ambientazione orrida e squallida che rimane ispirata dall’Inferno dantesco”, Paiano compie l’ennesimo miracolo: nella sezione tematica detta Anatomie lavora da latinista, chirurgo ed enigmista per cavar fuori, da ogni storpiatura e parolaia esorbitanza, delle aderenze lessicali capaci di soccorrere il lettore nel “disastro linguistico” in corso. Difatti, a corredo in scena di un piano operatorio e di un beccaio che s’accanisce, macellaio, su corpo e valve e glandule e tubuli e spongiose caverne, sta la sbrindellata scrittura di Bene che si smaglia fino a sfiorare, dissennata, il rischio dell’incomprensibilità. Perifrasi abbondanti e necessarie di Paiano, a questo punto bussola in un mare senza sponde e senza fari, qui favoriscono l’accesso a un dizionario adultero, logomachico e spurio.
Di girone in girone, la preziosa penna del critico seguita la sua architettura a sostegno dell’inesorabile franare del soggetto (oramai cadaverino e ristretto all’insignificanza del flatus vocis) che è pronto al finale licenziamento dal mondo: ridotto a tronconi di materia, tra gli spasmi motoristici di una carne che ha smesso di urlare, può adesso recidere l’ultimo laccio che lo lega agli affanni dell’esistere, ovvero quello del desiderio: nella conquistata epilessia della coscienza, sveste i già consunti panni dell’io-voglio e, nel ricettacolo degli anonimi senza identità, fa collassare l’eros nel porno, nella meccanica idraulica de sbava/ e sbocchi. Nella “fredda quiete” dei fantocci “mancati da per sempre”, erosi a ingranaggio robotico che lavora di stantuffi e turbine e motori a scoppio, l’umano si eclissa così nello spermautoma carachiano, in vuoto cimiteriale ‘me se d’altrui cadaveri ‘nventato.
Ogni cosa ha ecceduto di verso in verso, ogni cosa s’è fatta oscena fuor-di-scena e, da ultimo, finanche chi la scrisse. Il nostro sapiente Virgilio, che sfinito e pago dell’impresa ci ha traghettato fino alla terra di nessuno, annota infatti: “disattivata […] ogni pulsione non si può che constatare il cestinamento del poeta stesso”, dacché tutto è compiuto e compiuto è l’autore che si congeda perché “mai stato”, perché “non vi era altra presenza che la sua sola voce”, grembo sonoro della scrittura. “Ogni cosa rovina nel vuoto”, e con essa ponti e travi e stilobati di Paiano, “annullandosi in […] quel mal de’ fiori che si è rivelato un insensato vagheggiamento”, quella nostalgia delle cose che non ebbero mai cominciamento con cui Bene apre Sono apparso alla Madonna.
Così, finita la fine, anche l’impavido e irriducibile Virgilio può licenziarsi con l’ultimo singulto del poeta e, commovente in questo ventennale dalla morte, appuntare: “tutto si autodistrugge in un conclusivo vorticare dell’arredo” e “la voce di Carmelo Bene svanisce nell’ultimo accento del poema, che precipita come un sipario: L’hanno portata via l’hanno portata/ ’me il tutto ch’è mai stato e poi finì”.