Alessio Forgione è tornato. E, ancora una volta, ci spezza il cuore. Lo fa impercettibilmente, parola dopo parola, in pagine dove il linguaggio corre veloce come la giovinezza, con la stessa potenza e noncuranza dei vent’anni di Amoresano, protagonista de Il nostro meglio, il libro con cui lo scrittore napoletano classe ’86, già vincitore di numerosi premi con Napoli mon amour ed entrato nella dozzina del Premio Strega 2020 con Giovanissimi (entrambi pubblicati da NN Editore), approda presso La Nave di Teseo.
I capitoli di questo nuovo romanzo scorrono al contrario, in una sorta di conto alla rovescia che separa Amoresano dalla notizia di una terribile diagnosi che riguarda la nonna con cui è cresciuto fino al compiersi di un destino segnato. Nel mezzo c’è la vita, che prosegue spietata nella sua quotidianità e che si somma alla vita già vissuta, fatta di ricordi ed emozioni che affiorano, anche quando non si vorrebbe.
“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita”. Se la citazione dell’incipit di Aden Arabia di Paul Nizan dice tanto su Amoresano, ancora di più dice di lui il modo in cui il ragazzo collega la frase al suo autore – apparentemente, per noia: “Controllo il telefono e non ci sono chiamate. Senza alcun motivo, forse nel tentativo di ingannare il tempo per un attimo, leggo i messaggi che ho salvato e che non ho inviato a nessuno. Tra questi, c’è ancora la frase del treno e capiamo almeno una cosa, oggi, mi dico”. Ma è proprio lì, nei tempi d’attesa, tra un balcone e un internet point nelle strade di Napoli, nei quattro passi che separano la casa di Maria Rosaria dalla tabaccheria, nell’asciugamano sotto la sedia per non rovinarla, in tutti i pasti preparati e nei piatti lavati, che, semplicemente, abita l’esistenza. E gli avvenimenti destinati a segnare la vita, quegli eventi capaci di scandire il tempo in un prima e un dopo, altrettanto semplicemente si inseriscono in questo flusso di piccolezze che vorremmo cancellare, espellere dalla narrazione per dedicarci a cose più importanti, ma se pure possiamo illuderci di farlo, le piccole cose della vita, i gesti quotidiani, le abitudini di cui ci circondiamo racconteranno al mondo la verità su chi siamo, sui luoghi e le persone a cui apparteniamo. Perché sono esattamente queste piccole cose che sapranno tenerci a galla quando sentiremo di stare per affogare: basterà allora il ricordo di un pomeriggio in cartoleria per tenere a bada la voglia di spaccare il mondo o di piangere come se fosse un vizio che non si vuol perdere.
Il libro di Forgione è pervaso da una strana forza, che da un lato tira verso gli ideali, gli assoluti dell’adolescenza, mentre dall’altro ci riporta con i piedi ben piantati per terra, in un universo totalmente mondano da cui non si fugge. E quella che in un primo momento può apparire rassegnazione, è in realtà un ritratto dolce di una generazione che nonostante le più amare disillusioni sembra voler tornare a un valore tradizionale come quello della famiglia, spogliandola tuttavia di ogni dogmatismo e riconducendo tutto ai sentimenti e alle relazioni, alle singole persone.
Nel linguaggio asciutto della prima persona, Forgione sfiora lo stupore dell’infanzia davanti al mondo e lo nutre di una ben più matura accettazione del destino, di una pietas che abbraccia e perdona ma, soprattutto, ama. Ama senza dirlo, ama senza saperlo, perché Amoresano sente tutto il peso di un amore donato, regalato, senza che lui sappia come ricambiarlo o, quantomeno, come gestirlo. Da questo senso di colpa del troppo amore, se non nasceranno gesta eroiche, germoglierà tuttavia un affetto incondizionato verso ciò che, seppur imperfetto, seppur lontano da ogni aspettativa, fa parte di lui, come il ricordo di una risata o le contraddizioni di una città che, percorsa a perdifiato in motorino, scoperta un pezzo alla volta nei treni che le girano intorno o fuggita per mare, è entrata nelle ossa di chi la vive: “«È una cosa bella o brutta?» […] «È Napoli, frate’»”.