È vero, come si legge nell’interessante introduzione: questo libro è un invito all’ascolto, e le voci a cui prestare attenzione sono quelle di donne amefricane, soggettività LGBTQIA+ brasiliane, attiviste, scrittrici, artiste, intellettuali – raramente tradotte in italiano – che scrivono dalle e delle periferie, e raccontano di lotte politiche, sociali e umane, offrendo uno sguardo diverso su un mondo che forse, poi, tanto diverso dal nostro non è.
Le ricercatrici Alessia Di Eugenio e Francesca De Rosa, curatrici di questo saggio (e/o antologia) per la collana di pensiero femminista “Intersezioni”, spiegano che il concetto di amefricanità è stato pensato «per riflettere su specificità latinoamericane e per connettere persone indigene nere, comunità diverse e figlie delle diaspore, in quell’immenso lavoro di resistenza culturale e di sviluppo di forme alternative di organizzazione sociale contro la dominazione coloniale nelle Americhe».
Il mosaico di testimonianze che le due studiose utilizzano per rappresentare questo concetto, è composto non solo da brevi estratti di testi letterari (poesie, racconti, romanzi, cronache, testimonianze, ecc.), ma anche da opere visuali – compresa la bella copertina di Oficina fritta – di otto artiste brasiliane che aprono i singoli capitoli e da schede che introducono e collocano nel tempo e nello spazio le varie autrici.
Molte le donne, le soggettività, le denunce e molti gli argomenti. Per esempio, forte è la voce contro il razzismo brasiliano fatto di quotidiane micro-aggressioni nei confronti delle persone nere/creole, come racconta l’antropologa e femminista nera Lélia Gonzalez (1935-1994) che rivendica anche una precisa specificità della lingua portoghese afro-brasiliana; Maria Firmina dos Reis (1822-1917), invece, con la sua opera punta il dito contro i “barbari” trafficanti di schiavi europei e critica aspramente il trattamento disumano delle persone rese schiave e trattate peggio che merci: con lei veniamo in contatto con quello che è il primo esempio di narrativa abolizionista femminile e, con ogni probabilità, col primo romanzo pubblicato da una donna nera in America Latina.
E ancora, Ana Maria Gonçalves (1970) grida contro la morte, gli stupri, le violenze e denuncia tuttora la schiavitù gettando uno sguardo sul Brasile dell’Ottocento e sul ruolo delle donne schiave, tema ancora poco esplorato dalla letteratura brasiliana, mentre con i versi liberi di Miriam Alves (1952) ci immergiamo in questioni identitarie. Non manca nemmeno la denuncia, come quella di Beatriz do Nascimiento (1942-1995), che evidenzia una prevalenza di autori bianchi nella letteratura e di una fasulla rappresentazione delle persone nere, cui vengono spesso assegnati ruoli subalterni e stereotipati.
Prestando ascolto a queste donne, prendiamo consapevolezza di come gruppi storicamente oppressi, colonizzati e deportati come la popolazione nera indigena, per poter resistere alle atroci condizioni di vita e sfruttamento, siano riusciti a trovare il modo di conservare le proprie tradizioni mascherandole e mescolandole a quelle dei colonizzatori bianchi, riuscendo così a farle sopravvivere: elementi di culti e tradizioni africane, la musica e la cucina, e alcuni aspetti delle religioni si sono integrati e sovrapposti a quelli cattolici, come anche a quelli indigeni, dando vita a quella fusione di sapere di origine diversa che caratterizza la cultura brasiliana derivante, appunto, da strategie di resistenza. Grande spazio le donne amefricane riservano all’ancestrale, al legame col passato, non solo come mera ricostruzione delle proprie origini, ma soprattutto come ricerca di riconoscimento, di comprensione di sé e di autoaffermazione, mantenendo vivo il rapporto coi propri antenati.
Fra le tante cose, impariamo anche un’interessante parola nuova, “scrivivere”, usata dalla scrittrice brasiliana Conceição Evaristo: «Il nostro scrivivere non può essere letto come una storia della buonanotte per addormentare quelli della casa dei padroni, piuttosto per disturbarli nei loro sonni ingiusti». Con “scrivivere”, s’intende una scrittura che nasce dal quotidiano, dai ricordi, dalle esperienze di vita propria e del proprio popolo, accostando le esperienze di vita individuali a quelle di un’intera comunità; in questo senso, la letteratura amefricana si fa sì portavoce di un vissuto legato a sofferenza e resistenza, ma mira anche a disfare l’immagine del passato per ricostruirla più libera nel presente. Veniamo pure a conoscenza che, dal 2023, a Rio de Janeiro, esiste una Casa Escrevivencia che si presenta come uno spazio culturale, biblioteca comunitaria, centro di documentazione e luogo d’incontro; struttura che, non a caso, si trova nella zona portuale della città chiamata “piccola Africa”, dove venivano fatte sbarcare le persone destinate a essere vendute come schiave: un bellissimo segnale l’aver affrancato un’area da un passato di violenza e persecuzione, trasformandolo in uno spazio in cui ricreare comunità, aiuto e conforto.
Voci Amefricane è un’antologia molto densa di argomenti e contenuti – forse in alcuni passaggi un po’ troppo destinata, per tecnicismi e specificità, a persone addette ai lavori –, ma quello che resta di tutte queste storie, questi frammenti di vite, è l’idea che la letteratura può essere una potente alleata nell’aprire nuove prospettive e che voci a lungo rimaste silenziate o tenute ai margini, possono finalmente essere ascoltate, rompendo una rappresentazione stereotipata della letteratura “amefricana” per restituirla a una dimensione reale. In un periodo in cui si cerca di distruggere il linguaggio, di impoverire la cultura, in cui un’artista del calibro di Patti Smith elimina la parola nigger (negro) dal testo di una sua celebre canzone, forse può essere davvero utile ascoltare queste donne che ci parlano del loro passato senza nessuna censura e senza “rileggerlo” in funzione di chi le ascolta, del presente da vivere con forza e si predispongono a un futuro in cui verranno, ci auguriamo, di certo maggiormente ascoltate.