Alessandro Vietti sceglie Dino Buzzati

Non sorprende se uno scrittore italiano di fantascienza come Alessandro Vietti proponga uno scrittore eclettico come Dino Buzzati, uno degli autori più importanti del fantastico moderno italiano. Giornalista, pittore e narratore, Dino Buzzati è l’erede della grande letteratura italiana di inizio secolo, quella dell’ambiguità, dell’incertezza, delle visioni multiple, dell’instabilità e dell’attesa. Autore di racconti, misura narrativa certo limitrofa a quella del giornalista, Buzzati è autore del celeberrimo romanzo Il deserto dei tartari, ma non ha disdegnato di pensare alla fantascienza con il meno conosciuto Il grande ritratto.

 

Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme, e attorno né una casa né un albero né un uomo, tutto così da immemorabile tempo.

Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un’ombra progressiva e concentrica, era forse questione di ore, forse di settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte. La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto.

Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all’occidente tuttavia restava una striscia di luce, sopra i violetti profili delle montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del letto, la lucida sciabola di Drogo. Di là – capiva – egli non si sarebbe più mosso.

Avvolto così dalle tenebre, mentre di sotto continuavano le dolci canzoni fra gli arpeggi di una chitarra, Giovanni Drogo sentì allora nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato, respinto dalla Fortezza come peso importuno, lui che era rimasto indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita.

Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l’ultimo nemico. Non uomini simili a lui, tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e maligno; non c’era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l’acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c’è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo. Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere bello morire all’aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d’ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo.

“Coraggio, Drogo, questa è l’ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare.”

[…]

Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura? se dipendesse solo dal meraviglioso tramonto, dall’aria profumata, dalla pausa dei dolori fisici, dalle canzoni al piano di sotto? e fra pochi minuti, fra un’ora, egli dovesse tornare il Drogo di prima, debole e sconfitto?

No, non pensarci. Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare.

La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna.

Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima?

(da Il deserto dei Tartari, 1940)

Alessandro Vietti nasce giusto in tempo per esserci alla conquista della Luna. Forse è per questo che da sempre è interessato all’astronomia e all’immaginario fantastico. Ingegnere, vive e lavora a Genova nel settore dell’energia e si occupa di divulgazione scientifica e scrittura. Suoi articoli sono apparsi sulla rivista Robot e sui mensili Coelum, Le Stelle e L’Astronomia. Ha esordito nel 1996 con il romanzo Cyberworld, pubblicato dalla Casa Editrice Nord. Sempre per i tipi di Nord, nel 1999 è uscito il suo secondo romanzo Il codice dell’invasore. Entrambi i romanzi sono stati riediti nel 2015 dall’edito Delos Digital. Di recente per Zona 42 ha pubblicato Real Mars (2016) che ha vinto il Premio Italia come miglior romanzo italiano di fantascienza e, nel settembre 2018, il suo ultimo romanzo: Il Potere.