Estate. Mistica e frivola. È un’idea, una visione che entra nei sogni di bambini, adolescenti e adulti, che affolla le giovinezze e le maturità, che innesca una moltitudine di pensieri nella mente umana. La stagione dei desideri e delle nostalgie, persino troppe cose accumulate in così (in fondo) pochi mesi: dai giorni mitologici degli antichi alle rotonde sul mare novecentesche, al calore “che scioglie” in quest’ultima nostra epoca dissoluta e disforme.
Gli antenati sorriderebbero compiaciuti leggendo l’ultimo volume della quadrilogia stagionale stesa da Alessandro Vanoli dal 2018 a oggi e dedicato al periodo annuale che va da aprile a settembre e astronomicamente ha il suo apice col solstizio di giugno. Un viaggio nel tempo e nello spazio i cui pezzi arditamente l’autore cerca (e ci riesce) di collocare in poco più di duecento pagine. Le divinità sanno il fatto loro in certi casi, e assestando un bel colpo alla stupidità umana illuminano questo percorso dei loro lampi, da Stonehenge in qua. Dai nuraghi mediterranei ai templi egizi. Dai cicli della mietitura ai misteri da loro nutriti sotto i moti degli astri. E gli umani a spostarsi, a evolversi prima domestici e poi potenzialmente nemici del mondo.
I deserti biblici sono stati protagonisti, e l’estate greca ha riempito di dèi le regioni ancora povere di uomini. Lo sguardo si è posato su violenze celesti, ha dovuto resistere ai demoni del meriggio dove il panico andava in accordo con la pienezza “matura della vita”. Il frutto maturo dei campi. E i venti marini che facilitavano le navigazioni d’altura. Le arti, la poesia: ne è pieno il mondo perché ne ha bisogno la memoria. Dall’idea di calore greco (ther) alle risultanze più vicine a noi di D’Annunzio, Leopardi, Quasimodo, Montale. E le estati cinesi hanno il rosso come colore, governante il rapporto dei metalli con la vita quotidiana degli uomini.
I fuochi antichi di San Giovanni riportano a quel medioevo che nei campi ha l’odore del grano e della paglia (ben altri gli olezzi e i miasmi aleggianti nelle città, inimmaginabili per noi moderni). I fuochi, racconta Vanoli, venivano dalle tradizioni pagane sempre più legate al Battista che, contrapposto al solstizio d’inverno del giorno natale di Gesù, vede accostata la sua festa al solstizio d’estate. Radici profonde, assorbite via via dal cristianesimo. Mentre l’estate “tangibile” (saif) del mondo musulmano porta l’idea del caldo torrido dove i fiumi scompaiono e si prega al cielo troppo a lungo silenzioso. Il deserto porta con sé, per contrasto, l’immagine salvifica dell’acqua. L’estate ha magnificato l’esistenza dei pozzi verticali e dei sistemi di cisterne e condutture: in quei territori il giardino è il paradiso. Estate paradiso. Dove non vengono dimenticate neppure le api, con i loro codici, e la loro resa fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità. Il miele per gli antichi era considerato un transito per l’aldilà, e per millenni lo stesso miele transitava in giro per il mondo.
La magia dei boschi e dei campi: Shakespeare intorno al 1595 scrive Sogno di una notte di mezza estate, invenzioni e trame s’intrecciano durante la festa del solstizio dove i sogni erano abitati da troll e folletti, e la notte degli amanti sospesa tra favole e realtà. E sempre d’estate venne stabilito, nel corso dei secoli, l’appuntamento sacro dell’assunzione di Maria, benché – ricorda Vanoli – nel Nuovo Testamento non vi fosse menzionata la sua morte e il suo destino dopo il trapasso. Ancora una volta nel bel mezzo del mese di agosto paganesimo e cristianesimo mescolano i propri prodigi alimentando le abitudini cittadine alle feste.
Il viaggio di Vanoli si conclude con le pagine dedicate alla nostra estate, dopo aver compiuto un volo a planare sull’estate dipinta, quella in cui lo sguardo degli artisti diventa sempre più libero: dai paesaggisti del Seicento ai viaggiatori del Grand Tour, da Lorrain a Vernet fino a Monet, Degas e la deflagrazione “gialla” di Van Gogh nel prodigioso amplesso con i complementari blu e viola. L’estate più vicina a noi comprende l’invenzione della nostalgia e delle vacanze, dovuta all’inurbamento vertiginoso visto nell’Ottocento e nel Novecento. Questa stagione di “fioritura” s’allarga durante la Belle Époque, si lasciano Germania e Russia per ameni luoghi che si chiamano Abano, Salsomaggiore, Montecatini e le élite raggiungono Provenza e Costa Azzurra (così denominata nel 1887, e per sempre, dal poeta Liégeard), e s’inventano un luogo che prima non esisteva: Monte Carlo, in un angolo di costa prima selvaggio. Il turismo, mondano e popolare, inizia a trionfare sulle Riviere liguri e romagnole, e nei segreti ombrosi delle pinete viareggine. E nel fascino di Capri, dove folklore ed esotismo attirano poeti e gaudenti da tutta Europa.
In America arriva il condizionatore, in Italia le autostrade, il juke-box e il bikini allestiscono la propria mitologia in mezzo a nugoli di zanzare che, si sa, sono la specie più letale mai apparsa sul pianeta, così l’estate umana diventa “sterminata”. In mezzo a tutta questa grandeur non par vero a Vanoli di confessare che la più amata delle musiche estive non può che essere quella cantata da Bruno Martino nel 1960: Odio l’estate. Ma sarà poi vero?