Nell’acquario imbottito di Proust, risoluta fedeltà al fraseggio proustiano e alle storie che sempre sono ostaggio del tempo (iniziale maiuscola o meno) che si rivela con gli eventi minimi (a tutti, comuni mortali e immortali stipati nelle biblioteche) che non lasciano indifferenti ossa e inciampi mentali nemmeno tanto privati. Sbalzi, svolte, piaceri da rivolgere a studenti e appassionati, prima che il disfacimento sia irreversibile, passeggiando lungo i tomi della Recherche e mettendosi al servizio di quell’epoca corrispondente ai primi decenni del Novecento, e che ancora contagia l’autore come se un secolo intero non fosse trascorso. E invece eccome se è passato. Lo dimostra quasi a ogni pagina questo nuovo libro di Alessandro Piperno, dove raccoglie, rivolto a Proust, una introduzione “storica” e scritti vari – rimaneggiati – inediti o apparsi sul Corriere della sera.
Dal dono natalizio, da parte di un amico e compagno d’ultimo anno di liceo, del primo volume della Recherche tradotta da Giovanni Raboni, al passaggio degli anni “frastagliati” almeno quanto lo è l’opera dello scrittore di Parigi/Illiers/Combray, il radicamento proustiano in Piperno va alla conquista del lettore con divagazioni amabili e invariabilmente precise, e qualche patema che ammalia e approfondisce quei tentativi di lettura, spesso irrisolti, che molti di noi hanno provato accostandosi a Dalla parte di Swann. Chi, sentendosi scagliato lontano dai saloni Guermantes e Verdurin per vie secondarie, non ha provato frustrazione e oscuri sentimenti di vendetta? Ma la verità di Proust è sempre rimasta lì, inscalfibile nei fatti, incorruttibile negli arzigogoli e nei labirinti sintattici, pronta a analisi disparate, disinvolture, e interpretazioni rocciose. In mezzo a tutto questo groviglio di stili, la logica di Piperno ha spesso raggiunto il lettore con evidente e umana freschezza e con libertà di visione avventurosa. Pochi hanno saputo imbastire scritti dove Proust e Philip Roth non si sottraggono alla vita, per lo più vera, dove fatti e nomi, pur cambiando dati anagrafici e luoghi, hanno conservato la loro natura originaria. Effetto che può ritrovarsi nel capitolo conclusivo (“Il tempo non fa prigionieri”) di questo volume. Dove giochi di prestigio si fanno strada nei temerari salti di tempo delle strategie narrative adottate da entrambi gli scrittori. Crudeltà e indulgenze, spiega Piperno, che Proust e Roth si scambiano con la nota facilità con cui il secondo non disdegna la presa per i fondelli e lo smontaggio di facili epifanie. Recherche e voghe americane quanto meno sorprendenti.
Piperno mette al giusto posto le blandizie sentimentali, rifugge le facili categorie estetiche che tanto piacciono a professori e professorini di carriera, scoperchia le morbosità rovesciate addosso a imberbi reduci da sommosse ormonali, senza tralasciare monotonie “pasticcere” (le iperglicemiche madeleine) e dando il giusto rilievo alla mondanità proustiana portata di peso dal francese nella famosa stanza “imbottita”. Spettacolo di cui Cocteau denunciava gli orrendi olezzi, al netto della protezione di lungo corso offerta dalla domestica Céleste Albaret coriacea il giusto. Da inesperta e in seguito abile governante di paturnie, Piperno fa notare che per lei sopravvivere al proprio datore di lavoro volle dire, a distanza di mezzo secolo, rivelare il mai prima svelato. Otto anni di biografia incredibile, soprattutto ripensando bene con chi abbiamo a che fare. “Un plausibile backstage della Recherche”, spirito e profumi compresi, in una frangia postuma di Tempo ritrovato.
Nessuna monotonia critica, e revival di accidenti cardiaci in Proust senza tempo, se mai alcune consapevolezze (non proprio consuete nella critica nostrana) su altre monotonie, tutte riguardanti gli amorosi sensi sia etero che omosessuali. E notevoli indagini sul peso dato alla voce della barbarie antisemita in scrittori tanto antitetici come Proust e Céline. Il primo razzista per le sue sottolineature sulla presunta differenza fra aristocratici e ebrei, il secondo perso nel suo odio viscerale verso il “prototipo della decadenza francese” (Proust e prima di lui, Montaigne) con quella lingua “imbastardita” e “per tre quarti ebrea”. E altre divagazioni, che illuminano il fenomeno della letteratura francese, giungono con Nabokov, Balzac, Woolf e perfino Dante avendo in mente le suggestioni di Gianfranco Contini che confrontarono (coraggiosamente) il Narratore della Recherche alle prese con la mondanità parigina, inferno simile a quello descritto da Dante nella sua Commedia. Luoghi famigerati in entrambi i casi. E linguaggi complessi e impegnativi. Ma Piperno qui insiste giustamente sulla corrispondenza fra autobiografie diverse e lontane nel tempo.
In quanto a degenerazioni personali e familiari, Proust ha detto la sua in infiniti modi e occasioni, ed è noto quanto snobismo e sapienza si siano intrecciati nel “mega-libro” della Recherche, a favore dell’uno e dell’altra a seconda della volontà altalenante dello scrittore imprigionato nel suo demone. E quando Piperno sottolinea che un certo “sentimentalismo” non si è fatto mancare nel territorio della critica ufficiale italiana, individua il mai sopito desiderio proustiano di far sfavillare la propria prosa nelle praterie emotive prima ancora di apparecchiare le verità. D’altronde non pochi sono i personaggi che s’impossessano del lettore, mostri o deboli che siano, e il passo fra tragedia e chiacchiericcio luttuoso si manifesta spesso breve. Ma per quanto l’idea di una Recherche a dir poco universale sia mutata nel tempo “critico” e esistenziale di un autore come Piperno, nessun pensionamento potrà mai valere nella sua ricerca, e il tour continua ancora in presa diretta, tra ancora freschi stupori, accostamenti intriganti e quella inequivocabile sensazione di tenero sgomento quando si raggiungono le ultime pagine del Tempo ritrovato, e l’idea della fine è lì, presente, e non molla l’osso.