Alessandro Piperno / Intervista

Educazioni. Quanto questa parola (plurale) ha tracciato la storia vitale, sentimentale, letteraria, senza lasciar spazio alla parodia – se non, per certi tratti, barlumi di seducente (eh sì, per una volta definiamola così) ironia ebraica –, del nostro scrittore e critico più incorporato nel grande romanzo ottocentesco? Questione che non comporta il togliersi di mezzo da un Novecento assurdo e terribile, sfigurato dalle grandi guerre e Auschwitz. E da un postmoderno seviziante la maggior parte di scrittori e artisti. Ma noi abbiamo la fortuna di aver letto Philip Roth letto da Piperno, con gli antiantisemitismi e le “chiacchiere” riportate, comprese intemperanze, vergogne e svergogne dello scrittore di Newark: dunque dovremmo essere in grado di sostenere sia i lazzi di Zuckerman sia la grande epopea del Ricordo proustiano. Poi c’è l’avvicinamento progressivo di Piperno alla storia personale, con tutti i dubbi che il lettore si pone sfogliando uno dopo l’altro i romanzi, da Con le peggiori intenzioni e attraversando Il fuoco amico dei ricordi fino al recente Di chi è la colpa. Dubbi che comprendono la classica domanda: dove sta la biografia, se c’è, dentro la fiction? Al netto del ripulirsi da tali banalità (scioccherelle sì, ma ai lettori seri piace anche dilettarsi col futile), allontanandosi dal romanzo d’avventura – alquanto detestato dal nostro scrittore – non rimane che provare a sedersi per qualche minuto al tavolo della cucina e tentare di distogliere Piperno dai propri pensieri per regalarci qualche dritta che aiuti a discernere fra le qualifiche di “prosatore”, “narratore” e simili bizzarrie. Tenendo fede, personalmente, ai diversi articoli apparsi di recente nelle pagine della “Lettura” (Su Cheever e Manganelli, per esempio) e quelli raccolti in Pubblici infortuni e Il manifesto del libero lettore.


Nel suo nuovo romanzo fa la sua comparsa una schiera di parenti (di parte materna) del protagonista d’origine ebraica. Come vive una famiglia ebrea a Roma?

Immagino che viva come qualsiasi altra famiglia romana non ebrea: lottando con una città complicata e cercando, nei ritagli di tempo, qualche svago interessante. Chiedo scusa per la risposta elusiva ma sa, ho qualche difficoltà a parlare a nome di una comunità di cui faccio parte di sguincio e che per lo più ignora ciò che scrivo.

In che misura l’“immenso edificio” dei ricordi si è posato in Di chi è la colpa?

Di norma (anche se non mancano le eccezioni) diffido di un’opera narrativa che non si ponga come obbiettivo primario di restituire il senso del tempo. Amo vedere i personaggi (non solo i miei) invecchiare più o meno malamente. Poche cose mi emozionano come il succedersi inesorabile delle stagioni. Frasi apparentemente anodine come “Quell’anno la primavera giunse in anticipo” o “Le luci di Natale rischiararono la città” hanno su di me un potere ammaliante.  Per scrivere Di chi è la colpa ho attinto senza ritegno a ricordi molto vividi: un viaggio a Manhattan con mio padre, le prime pulsioni veneree per una compagna di classe, le nottate di cazzeggio tra liceali altolocati. Un materiale variegato, tutto sommato banale, ma almeno per me molto evocativo.

Sappiamo bene quanto Philip Roth sia stato importante nella sua carriera letteraria (mi scuso per il termine, ma ci capiamo), e quanto Proust sia entrato autorevolmente nel fitto reticolato della prosa e nella retorica della memoria. Come si è affrancato da entrambi questi giganti?

L’originalità è un mito romantico di cui dopo un po’ occorre sbarazzarsi. Anche i giganti da lei menzionati, a leggerli bene, vantano debiti verso la tradizione. La Recherche, una delle più maestose cattedrali narrative mai allestite, non esisterebbe senza Madame de Sévigné, senza Racine, senza Nerval, senza Balzac, senza Tolstoj o George Eliot. Anzi, mi verrebbe da dire che la Recherche è un’enciclopedia della letteratura europea e della sapienza universale. Proust è una specie di curatore testamentario alle prese con un’eredità infinita e preziosa. Venendo al mio caso, decisamente meno interessante, direi che la lotta per assimilare e smaltire l’influenza di Proust e di Roth (ma ce ne sono anche parecchi altri meno visibili) è stata lunga ma implacabile. Proust riteneva che non ci sia modo migliore di liberarsi di uno scrittore amato che parodiarlo, fargli il verso. Un consiglio prezioso cui mi sono attenuto scrupolosamente. Non sta a me pronunciarmi sulla qualità letteraria dei miei romanzi ma so di possedere una voce, so che le mie pagine mi somigliano, so che qualsiasi lettore in buona fede è in grado di riconoscere i miei stilemi.

Le figure femminili nei suoi romanzi sono molto diverse da come appaiono in quelli dello scrittore di Newark – lei pensa che il movimento @metoo sia troppo ingeneroso con scrittori e artisti?

Stando ai suoi romanzi, alle confessioni intime e alla recente controversa iperdocumentata biografia di Blake Balley, gli appetiti erotici di Philip Roth sono stati pantagruelici. Immagino (ma è un’ipotesi un po’ pedestre) che i suoi magnifici personaggi femminili (a cominciare dal più illustre e riuscito: la formidabile Drenka Balich) abbiano tratto giovamento dall’esuberanza del loro creatore. Roth ha il potere raro di erotizzare qualsiasi cosa: non solo i personaggi femminili, ma anche quelli maschili e persino i ricordi d’infanzia o di università. Pochi altri autori contemporanei hanno saputo dare conto con altrettanta spavalderia dei fasti e delle miserie della rivoluzione sessuale. Il mio caso (sia da un punto di vista personale che letterario) è decisamente più banale. Ho un rapporto irrisolto con l’altro sesso, in bilico tra idolatria e diffidenza. Le madri dei miei romanzi sono figure castranti. In quanto alle eroine amate, sono sempre in fuga. È proprio in virtù di questo che preferirei non pronunciarmi sul resto della sua domanda. Non mi piace l’aria che tira, il maccartismo che domina la nostra epoca.

È indubitabile come la sua libertà di lettore privilegiato cerchi (e trovi) il piacere che deriva dallo studio (pressoché divulgato in articoli e volumi) di classici che si chiamano Flaubert, Stendhal, Tolstoj, Nabokov, e naturalmente Proust. Ciò non toglie che l’attenzione verso scrittori come Cheever, Manganelli, Bellow rasenti spesso un certo “vizio amoroso” a cui viene introdotto il lettore comune, dove per “comune” non s’intende propensione a sciatteria o superficialità, ma se mai a curiosità. Attitudine a un certo romanticismo pedagogico? O benevole chiacchiere a distanza con chi, in varie situazioni, si siede e apre un libro inaspettato?

Romanticismo pedagogico?  Ci mancherebbe altro. Scrivere degli scrittori che amo è parte integrante del mio mestiere di scrittore. Non posso farne a meno. Non mi pongo alcun obbiettivo didattico o divulgativo. Brodskij nella sua bella lettera scritta a Orazio (ossia a un poeta vissuto un paio di millenni prima di lui) dice che i lettori più influenti sono gli scrittori che non ci sono più. Si scrive anche e soprattutto per loro. A parte questo, c’è anche lo spionaggio industriale. Ho un amico ingegnere dotato di grande manualità che si diverte a smontare e rimontare vecchi orologi per capirne il funzionamento. Ecco, lo spirito che mi guida è pressapoco lo stesso. Mi appassiona l’ordito dei capolavori romanzeschi. Mi dà piacere sfilacciarli per svelarne trucchi e segreti.

Veramente lei ha esordito nella storica rivista “Nuovi argomenti”? I nomi che appaiono nel suo romanzo sono veri… da Enzo Siciliano a Alberto Moravia.

Già, ho esordito su “Nuovi argomenti” con un racconto che ha lo stesso titolo della novella che scrive il mio narratore: I cognomi di città. Ero poco più che un ragazzo e fu una gran bella soddisfazione. Non ho avuto il piacere di conoscere Moravia (quand’è morto avevo diciotto anni) ma considero Siciliano un mentore prezioso. Era un uomo fragile, generoso, curioso e coltissimo. Senza di lui, i miei inizi sarebbero stati decisamente più complicati.

L’io narrante trascorre dall’infanzia all’adolescenza fra sorprese inaudite, interne ed esterne alla famiglia: dallo smascheramento di un “giudaismo” romano segreto e insospettato alla iniziazione alla scrittura. La scoperta di chi è veramente la gente, anche fra le pareti di casa, è stata per lei qualcosa di colossale così come è avvenuto per il protagonista ragazzo?

Direi di no. Il bello di scrivere romanzi è che ti permette di rendere spettacolari e avventurose esperienze comuni. Al mio povero protagonista ne capitano di tutti i colori. La sua iniziazione alla vita passa attraverso peripezie romanzesche che grazie al cielo mi sono state risparmiate. Ciò detto, mi viene facile identificarmi nei suoi dubbi, negli sgomenti che lo attanagliano e persino nella fame di vita che lo anima.

Spesso, durante le interviste, ha dichiarato che il sentirsi “ebreo ibrido” ha avuto una funzione trainante nella sua esistenza quotidiana: è accaduta la stessa cosa nella scrittura?

Ho un padre ebreo, peraltro molto fiero di esserlo. È la cosa più ebraica della mia vita con cui faccio i conti da che ho memoria. Per il resto l’ebraismo è una contaminazione culturale, una griffe letteraria. Il mio ebraismo consiste nel perseguimento di un certo spirito ironico, caustico, nichilista e gaudente. Poi c’è la Shoah, certo, ma di questo preferisco non parlare.

Quanto ha contato un esordio felice come il suo (con il romanzo Con le peggiori intenzioni) nel proseguire la vita di scrittore superando lo “spauracchio della mediocrità”?

Quando mi piombò addosso quel successo non avevo idea di quanto avrebbe influito sul resto della mia carriera.  Sebbene da allora abbia scritto cose decisamente migliori, Con le peggiori intenzioni continua a essere la mia opera più rappresentativa. A quasi vent’anni dalla pubblicazione, è ancora in libreria come se godesse dello statuto raro e privilegiato del piccolo classico contemporaneo. Di recente, per via di una trasposizione cinematografica in lavorazione, ho dovuto dargli un’occhiata. Non lo facevo da allora. Se da un lato ne ho visto tutti i difetti, i limiti, le pomposità ingenue, dall’altro mi è sembrato un libro pieno di energia e baldanza. Probabilmente oggi lo scriverei diversamente ma non sono certo che sarei in grado di renderlo migliore. Quello che lei chiama lo “spauracchio della mediocrità” è lo spettro con cui un narratore in buona fede deve convivere quotidianamente. Il paradosso è che per scrivere qualcosa di decente devi tenere assieme presunzione e umiltà. Devi credere in quello che stai facendo senza mai dimenticare che il risultato delle tue fatiche non sarà mai all’altezza delle aspettative.

La paura dei propri sentimenti influisce sulla famigerata contrapposizione fra complesso di inferiorità e complesso di superiorità?

A dire il vero, stento a ravvisare una relazione di causa-effetto tra la paura dei propri sentimenti (un disturbo caratteriale che affligge molti uomini della mia generazione) e il confitto tra complesso di inferiorità e complesso di superiorità.  Per quanto mi riguarda, faccio di tutto per difendermi dal giudizio del prossimo che, del resto, immagino sempre malevolo e detrattivo.

In Di chi è la colpa sono rari i personaggi simpatici, forse addirittura assenti. Nemmeno il protagonista, pur essendo perennemente nel posto sbagliato – e dunque candidato a trovare alloggio nei sentimenti primari del lettore – non attira su di sé grandi simpatie. Si sente attratto dai personaggi scomodi, o appartati?

Non considero la simpatia una qualità umana degna di nota. Né mi capita mai di interrogarmi, mentre provo a metterli in scena, sulla piacevolezza dei miei personaggi. Ciò non significa che non presti loro tutte le attenzioni che reclamano.

A quali scrittori italiani contemporanei presta oggi la sua attenzione?

Checché se ne dica non è brutta stagione per la narrativa italiana. Per intenderci, la situazione è decisamente migliore rispetto ai miei esordi. La critica ci tiene in considerazione, il pubblico non ci disdegna, all’estero ci traducono. Dovendo fare dei nomi, così alla rinfusa, partirei dagli amici: Mario Desiati, Leonardo Colombati, Sandro Veronesi, Emanuele Trevi. Ma come non pensare a Siti, a Mazzucco, a Mari, a Scurati? Come non citare Gilda Policastro o Veronica Raimo? Anche se non scrive romanzi, ho un debole per Annalena Benini.