Alessandro Piperno, “libero lettore” e libero scrittore, se non fosse che il piacere di scrivere – congiunto alla libertà – non è affatto un piacere ma un cammino nei sentieri dell’inferno. Quel luogo dove ci conducono, da ragazzi, i signori delle biblioteche e delle schede affastellate dentro polverose scrivanie in procinto d’estinguersi a causa della transizione informatica. Bisogna essere provvisti di pensieri essenziali, di buona memoria e di logica ferrea per parlare di transizioni in epoca di pandemia, ecologia, LBGTQ+, e dare aria agli scaffali stipati. Respira, siamo in letteratura (con o senza maiuscola).
Però siamo persuasi che dentro il nuovo romanzo Piperno abbia visitato in lungo e in largo la categoria umana a cui appartiene, e a cui appartengono (o hanno appartenuto) parenti più o meno stretti e amici e conoscenze trascorsi nella sua vita privata. Niente che possa placidamente occupare i risvolti di copertina. Ma come classificare l’opera evitando il rischio d’imitare le psichedeliche recensioni dell’ineffabile D’Orrico? Se il tempio letterario italiano appare diroccato, squamato e miseramente bizzarro (copyright Permunian), qualcosa deve essere accaduto nelle trame fumose che allignano tutt’intorno a editor, amici della domenica e premi e premiacci. Qualcosa che ha prodotto inedite fessure geniali nella mente di certi scrittori, fino a giungere ormai da alcuni anni al nostro Piperno. Senza, per carità, alludere all’amato e odiato (soprattutto dalle donne, nella seconda opzione) Philip Roth. Piperno ha voluto essere Piperno, tutt’al più con – nel caso in questione – una spruzzata dickensiana subito corretta dai luoghi non comuni ebraici. Sparsi per il mondo, sì, ma mai giunti alle diffusive e ammanettanti vette cattoliche.
Di chi è la colpa va su e giù per la memoria umana, incalzata dall’autore con la perfetta affabulazione che gli riconosciamo fin dall’esordio (Con le peggiori intenzioni, 2005) e presente nelle raccolte di scritti proustiani e nelle spregiudicate scorribande in presa diretta con gli amati Nabokov, Cheever, Stendhal e similari giganti della narrativa universale. Vi troviamo un ragazzino cresciuto negli anni Ottanta, madre riservata e padre allegramente sbruffone e perdente. Ingolfati da debiti e litigi, trascinano il figlio ignaro verso un fatto di sangue che gli cambierà per sempre l’esistenza. Ritrovandosi all’improvviso dentro una matassa di parenti nuovi di zecca, fascinosi e inaspettatamente ebrei. Un ribaltamento che dall’indigenza estrema lo porterà a vita agiata, tra viaggi e imposture imposte e congenite, sue e di tutti. E lì inizia l’avventurosa impresa nel mondo delle lettere: dal primo timido esordio nelle pagine di Nuovi argomenti, accolto da Enzo Siciliano, al riconoscimento in età adulta avuto con i successivi romanzi. Piccole dosi di biografia, saggiamente centellinate in pagine dove il sentimento amoroso si divide fra una cugina indimenticabile e una ragazzetta “fica” e radical chic, figlia del proprio tempo e abbastanza antipatica.
Romanzo composto di romanzi, dunque, che sarebbe piaciuto a un Proust redivivo, tra lacrime e sorrisi inseguendo queste famiglie degeneri e pirotecniche. Un Piperno che sta loro alle calcagna tramite pagine, a fasi alterne, dolenti e ironiche. Gli spezzoni di realtà si mischiano ai rapimenti letterari, dove vizi e virtù avanzano sullo stesso piano con grande afflato romantico. Proprio come la vita, sbattuta in faccia in Di chi è la colpa agli onnipresenti gruppuscoli di benpensanti e parvenu. Dal sentimentale attacco rappresentato da “Si muore come caffè espressi” – simbolo di nevrosi infantili e adulte – all’altrettanto sentimentale finale in cui l’addio alla sempre amata cugina avviene in un cimitero, questo è un romanzo che impedisce spoiler ma fa passare alla storia quanto pensano i cattolici degli ebrei e viceversa. Ben lontani dalle elucubrazioni onanistiche di Woody Allen: poiché, non dimentichiamolo, qui non siamo a Manhattan, ma nella “benedetta e maleducata” Roma.