A Milano il cielo ti induce a pensare al peggio e nell’aria si respira morte e formaldeide. Queste osservazioni del protagonista di Milano di merda (Kresta) sulla capitale economica d’Italia, il centro mondiale della moda e del design, accompagnano il suo lavoro di pulizia mentre si destreggia con la sua motoscopa, a tre ruote e due spazzole, nell’anticamera dell’inferno della stazione Centrale. Ma ci sono alcune cose che la motoscopa non può spazzare via, come l’intensità della sua vita, forse attutita dalla droga ma condannata a osservare e ricordare. Ed è il linguaggio che spaventa sin dalle prime pagina, la capacità di descrivere i luoghi e le persone come se fosse capace di vedere all’interno e di percepire l’anima nascosta, un’anima che si mostra fisicamente, che si appropria lentamente del corpo per deformarlo, per urlare la verità.
Il linguaggio è preciso, colto, mai scontato, quasi l’esperienza tossica, oltre all’universo della lingua italiana classica (che emerge continuamente, con scandalo), abbia ibridato un nuovo vocabolario capace di descrivere l’orrore. “The horror!” è l’indimenticabile frase che suggella Cuore di tenebra di Joseph Conrad, una discesa spaventosa in quello che l’umano è capace di compiere quando la supposta civiltà è lontana da lui. Kresta Pedretta scrittore ci accompagna in un mondo in cui l’atmosfera è grigia, la neve si accumula sporca in sozze pozzanghere, la nebbia nasconde parzialmente il vagare distorto degli umani, visioni opache fuori fuoco che, improvvisamente, esplodono fuori controllo. Questo incedere in un mondo che è il nostro ma alterato, fino a dubitare del legame con quella che crediamo la realtà, mi ricorda, pagina dopo pagina, quell’aria densa del mondo purgatorio inventato da Valerio Evangelisti in Cherudek. E questa descrizione del mondo dei tossici che si sviluppa insinuato tra le maglie della Milano da bere vive una costante tensione tra paradiso e purgatorio in una realtà in cui il paradiso semplicemente non esiste.
Scendere nell’abisso vuol dire incamminarsi, muoversi verso una verità inconcepibile, amara e non voluta. La Milano “di merda” è una città che è stata oggetto di una mutazione, non è più abitabile dalla razza umana (se mai questa razza è esistita in termini di bene) a meno che non si ricorra a qualcosa di artefatto. È una città distrutta dal lavoro, dalla flessibilità, dalla creatività, dall’inganno, dalla religione del futile e del merchandising, dall’invasione capillare del capitale in ogni attività umana. Se ogni mattino i tossici si levano dai loro rifugi in cerca dei soldi e poi della droga, ogni mattina i milanesi per bene si levano dai loro rifugi verso i luoghi del lavoro per guadagnare soldi da spendere in un circuito dove ogni cosa è diventata una droga, dove le persone hanno perduto ogni loro progetto e si lavano e si vestono per realizzare il progetto degli altri.
Senza retorica, e questo è un grande valore narrativo, l’autore ci racconta come si è svolta la sua vita attraverso gli spostamenti e gli incontri, dove luoghi e persone si raggiungono e si abbandonano al ritmo scandito dal desiderio e dal dolore dell’astinenza. Davanti a lui, vicinissimi ma quasi senza toccarsi, fluiscono come banchi di pesci i normali, anche loro verso luoghi di disperazione in cui consumano la vita nel lavoro. E Kresta non nutre alcun dubbio, anche loro sono dominati da un demone e destinati alla morte, la “marcia salariata” dall’anima progressivamente svuotata dalla disciplina, dalle rate, dal cinismo, dai desideri artificiali. Sono universi paralleli entrambi dominati dal male e che costituiscono la base di questa guida anti-turistica di una città squartata dal capitalismo estremo e da un rifiuto estremo. Non la abitano persone ma due specie di zombi, quelli esteriormente curati, eleganti, dimagriti e irrobustiti da pastiglie e palestre, “isolati in compagnia” e soggiogati dai demoni del telefono, gli indifferenti ultracorpi del film di Don Siegel, e quelli in cui l’autodistruzione ha preso metafisicamente il sopravvento ed elargisce un’alternanza di rilassatezza e dolore scandita dal metronomo della chimica. E ogni specie percorre il suo specifico habitat, di vetro e metallo, o di macerie e rifiuti. Milano di merda è una storia naturale del contemporaneo declinata da chi batte la città a testa bassa, occhi al selciato e attenti a scrutare i rifiuti industriali del benessere abbandonati dall’altra specie umana, pronti a vivere ogni giorno la propria tragedia personale dello spacciatore che non si trova.
In Milano di merda una sorta di horror diventa il realismo (o il contrario). Le descrizioni minuziose trapanano la realtà, ci rendono una verità a cui siamo disabituati o che forse non abbiamo mai conosciuto. L’ambiente circostante è segnato da aiole, scantinati, sottoscala, angoli bui, gradini, posteggi di automobili abbandonate, giardini pubblici ridisegnati in una scabrosa geometria ballardiana, quella de L’isola di cemento, per esempio. E anche lì il paesaggio mostra morbosamente le sue ferite di “pezzi di merda, siringhe, sangue, cartocci di avanzi di cibo gonfi e umidi, fiale rotte, bottiglie di birra colme di piscio”. All’interno di questo horror ateo, le persone possono essere descritte con efficacia ricorrendo alle sembianze animali, quando il loro aspetto evoca animali, insetti, topi, faine. Un universo kafkiano in cui Kresta si muove con assoluta accettazione, in cui il suo amico Ivan si trasforma in un insetto di settanta chili dagli occhi caleidoscopici e dall’ingordigia delirante e, verso la fine della narrazione, una mazza calata sulla mano di uno spacciatore il suono che produce è quello di un enorme scarafaggio di dieci chili che viene schiacciato da una suola gigante. Così la geometria dell’umano muta in quella animale alla ricerca di una comprensione più profonda, l’idea già di Burroughs di un senso nascosto che solo in certi stati dell’essere si manifesta pienamente.
Walter Benjamin aveva molto precocemente, con efficacia, criticato l’esprimersi del capitale come religione. Tutta la vicenda di Milano di merda si esprime all’ombra di questo culto pagano, e l’amico Max è l’elemento in cui si chiarisce la metafisica materialista del romanzo. Da tossico vecchio stile che perde ogni difesa esteriore ed interiore, che si abbandona ai ricatti e all’aiuto di tossici e pusher, che oltrepassa i limiti che credeva di possedere, Max, come colpito da un’ambigua luce rigenerante, rinasce come nuovo tossico, adeguando le sue dipendenze a quelle permesse dal capitale. Si tratta di una metamorfosi che si attua sul piano fisico, sull’abbigliamento, sull’adesione ai riti collettivi, sul piacere del consumo e su una diversa assunzione delle droghe. “Ma questo morto rinato è davvero diverso dal vivo morente che era prima”, scrive l’autore in un’osservazione che sottolinea la religione blasfema che ha preso il sopravvento, quella non-vita dopo la non-morte che parodizza molte delle lettere di San Paolo. Oggi Kresta Pedretta si definisce “operaio e scrittore”, definizione politica e di vita che stimo profondamente.