Leggere Mura amiche – terzo libro di poesia di Alessandro De Santis, già autore de Il cielo interrato (Joker, 2006) e Metro C (Manni, 2013), e incluso nel frattempo anche nel XII Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2015) – durante il lockdown ha avuto un effetto stranamente, blandamente taumaturgico.
Non che la poesia riesca a salvare la vita – come recitava il titolo di un saggetto di ormai trent’anni fa e come si sente ogni tanto ripetere, mutatis mutandis, nelle parole di alcuni dei poeti più in vista – ma leggere qualcosa che, come segnala argutamente Andrea De Alberti nella concisa postfazione, sta “tra una soglia e un’idea infinita di spazio” ha sicuramente avuto il merito di creare un’apertura dove il mondo si era ripiegato, se non anche decisamente richiuso, sul proprio ombelico.
Lo stesso si può dire, in una prospettiva più strettamente legata al testo, della scrittura poetica di Alessandro De Santis, ormai svezzata rispetto all’impronta post-lirica degli esordi – un’impronta nella quale, al di là del caso specifico, può sempre rimanere una dose più o meno elevata di ombelicalismo – e pronta a guardare alla propria materia con uno sguardo più chiaramente filosofico. È in questo senso che si può leggere la chiusa fulminante di uno dei testi della prima sezione, Camera oscura (dove il riferimento alla fotografia appare come soglia per un’apertura ancora diversa): “Sono nude vite, / mura amiche.”
D’altra parte, la visione teorico-filosofica è ciò che, sempre in termini generali, torna più spesso a incocciare nella possibilità del cliché, laddove, nel caso specifico, la dimensione domestica è stata spesso oggetto, in anni recenti, di approfondite indagini poetiche, in una vasta costellazione che può includere, a vario titolo, opere come Da una crepa (Einaudi, 2014) di Elisa Biagini, Casa rotta (Arcipelago Itaca, 2017) di Valentina Maini o ancora Cose di casa (Dot.com Press, 2017) di Jacopo Ninni.
Il cliché domestico, però, può essere rovesciato nel kliché, come ci ha recentemente insegnato Remo Rapino, fresco vincitore del Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio: parlando del proprio libro, Rapino ha spesso fatto riferimento alla parola kliché, in uso tra le popolazioni che vivono intorno al lago d’Aral (tra Uzbekistan e Kazakistan), per definire il filo estremamente sottile, ai limiti dell’invisibilità, della memoria, che tiene insieme tutti i nostri ricordi. E De Santis, a conclusione della poesia dedicata ai Lego – contenuta nella quarta sezione, intitolata I sensi lunghi – scrive: “Fanno la tua memoria libera / Stanza di carta sottile / Fermati, non guardare / il grande innocente, / il pezzo singolo, / qualcosa”.
Non c’è solo una cosa, o una casa, nella memoria, ma un filo sottile può unire quelle che superficialmente appaiono come monadi. E, in effetti, forse facendosi trascinare dalle canzoni di Elliott Smith, genio musicale mancatoci prematuramente e al quale è esplicitamente dedicato un testo di De Santis (si riascolti Memory Lane: “But isolation pushes you ‘til every muscle aches / Down the only road it ever takes…”), la quinta e la sesta sezione del libro spingono oltre l’individualità cui potrebbero ricondurre, ossessivamente e asfitticamente, le mura, per quanto sembrino “amiche”. Le due sezioni conclusive si intitolano, rispettivamente, Oltre mura e Casa d’altri: quest’ultima – il cui titolo è, naturalmente, un omaggio al capolavoro di Silvio d’Arzo – non è il compimento, intrinsecamente consolatorio, di un superamento psicologico o dialettico, ma è dedicata all’esplorazione delle case altrui (dove le mura, appunto, sono “amiche” di qualcun altro) e vi si torna a riprodurre la dialettica tra soglia e infinito dell’apertura già segnalata in precedenza, sulla falsariga delle note di De Alberti.
Al netto di alcuni grafismi poco significativi e di alcune soluzioni gnomiche che paiono già conosciute – ma sono solo casi sporadici – e trovando forse gli esiti più felici nelle prose – per esempio, in quelle dedicate alla Sporcizia – Mura amiche è un costante invito a guardare con rinnovato interesse alle pareti che ci circondano e ci inglobano, cercando di decifrarle per poi poter “rimanere” – come si conviene a ogni lettore e autore di poesia moderna – “senza di me”: senza, cioè, un io che le guardi, dalla sua posizione di inevitabile e incancellabile reclusione.