Ma perché i serial killer, o assassini seriali che dir si voglia, ci appassionano tanto? Perché su gente come Jeffrey Dahmer o Leonarda Cianciulli, oppure – risalendo un po’ più indietro – Gilles de Rais, si scrivono libri, si girano film e serie TV, si disegnano fumetti, si creano gruppi sui social? E non parliamo di Jack, del mitico Jack, quello dei Cinque Delitti Canonici, della lettera From Hell, dalla cui vicenda (o leggenda) scaturisce un capolavoro assoluto dell’arte sequenziale come From Hell, per l’appunto, dell’inarrivabile Alan Moore (senza ovviamente dimenticare Eddie Campbell alla grafica). Ogni anno che a scuola inizio a parlare dell’epoca vittoriana, so già come attirare l’attenzione degli studenti: proietto sulla smart TV la lettera di cui sopra, e attacco a raccontare la storia di Jack lo Squartatore. Successo assicurato, batte pure Oscar Wilde, che pure oggi giorno tira da matti.
La domanda sulla popolarità degli assassini in serie me la sono posta e ancora me la pongo dopo aver letto la nuova uscita di Alessandro Ceccherini, che due anni fa s’era dedicato al Mostro di Firenze (altra entità che sfida la metafisica classica, è il vero uccisore destrutturato, postmoderno, potremmo dire “derridiano”); stavolta lo scrittore lascia la sua Toscana e si sposta in Liguria, a seguire le ben più tradizionali (in apparenza) gesta di Donato Bilancia, altro genuino assassino seriale tutto italiano, tranne per la coca di cui faceva uso. Aprendo il volume mi sono detto “ma perché sempre serial killer?”, e confesso che mi ero un po’ perso d’animo, perché credevo di conoscere la vicenda del Mostro della Liguria, anche noto come Assassino dei treni, e mi dava un’impressione di déjà vu. E invece no, e me ne sono reso conto inoltrandomi in Che venga la notte.
In realtà dell’intricata vicenda del ladro, biscazziere, assassino, violentatore ne sapevo poco, e un pregio del libro è che non cerca di semplificare la faccenda, ma, pur con momenti di scrittura creativa (i dialoghi sono ricostruiti, non registrati) ne segue l’andamento asimmetrico, sghembo, in ultima analisi più una deriva, più una sequenza di eventi anche accidentali, che una vicenda con un capo e una coda e una consecuzione logica. Bilancia, e questa è la cosa notevole, uccide diciassette persone in meno di un anno, dopo un’esistenza di malavitoso (un tempo si sarebbe detto “balordo”) non particolarmente spettacolare: quando comincia ad ammazzare è prossimo alla cinquantina, e fino a quel momento ha svuotato appartamenti per poi mangiarsi i milioni sottratti ai tavoli da gioco.
Ceccherini a mio avviso pecca un po’ quando cerca di ricostruire la vita interiore di Bilancia con momenti tra l’onirico e lo psichedelico, che non convincono del tutto; ma quando resta nel grigiore di una vita squallida e senza dignità convince, anche se a leggere ci si sente un po’ a disagio. Soprattutto Ceccherini è stato bravo a non cedere alla tentazione di fare del suo assassino seriale un Personaggio Affascinante. Avete presente Hannibal Lecter interpretato da Anthony Hopkins? Ecco, il Bilancia che viene ritratto in Che venga la notte è l’opposto non complementare. Non solo; la narrazione non cerca di far tornare tutti i conti, di trovare un’unità, un’organicità: c’è prima il ragazzo goffo e impacciato, poi il malavitoso di mezza tacca (forse tre quarti di tacca sarebbe più corretto), poi la rovina anche del business criminale, e poi sette mesi di ammazzamenti, e infine la vicenda di un ergastolano che tenta goffamente di piazzarsi sotto i riflettori, di diventare un personaggio televisivo (inclusa l’intervista da parte di Bonolis). I quattro segmenti dell’esistenza di Bilancia non stanno insieme, e questo non deriva da un’incompetenza di Ceccherini, che il mestiere lo conosce, ma dalla vicenda stessa. Anche la serie dei delitti dell’ammazzatore è disorganica: colpisce prostitute, cambiavalute, metronotte, viaggiatrici occasionali di convogli ferroviari. Non c’è affatto quella geometria ben esplicitata che trovi in film come Seven, né il tratto unificante delle vittime de Il silenzio degli innocenti. Bilancia sembra quasi procedere a casaccio, un po’ per intascare soldi, un po’ per fare sesso violento, un po’ per buttarla in caciara (o, come si dovrebbe dire in italiano nazionale, operare un depistaggio); e Ceccherini è stato bravo a non cercare di rendere tutto questo qualcosa di organico, sistematico, metodico. Insomma, non so ancora darmi una risposta, non so com’è che i serial killer tirano tanto, però posso fare due considerazioni finali.
Primo, Che venga la notte si sobbarca il difficile compito di raccontare un mostro senza un grammo di carisma. Come si diceva, il tentativo di Bilancia di sfondare in TV fallisce miseramente; altri mostri l’hanno surclassato, dal rustico Pacciani all’agghiacciante Izzo del Circeo. Neanche ci sono quei misteri che allignano su tante storie criminali, niente servizi segreti, niente sette, niente P2, niente complotti. Ceccherini si è astenuto dal mettere nella miscela dosi di glamour, consapevole che il suo antieroe (una sorta di Zeno Cosini malavitoso e assassino) non andasse dipinto con tinte shakespeariane, e men che mai marlowiane.
Secondo, sullo sfondo di questo quasi-memoriale sta la città italiana più difficile da dipingere, da inquadrare, da fotografare, da raccontare. Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Milano, Palermo, Torino, sono tutte primedonne con personalità ben definite e soprattutto proiettate sull’immaginario collettivo; sono città-dive che tutti conoscono, con un’immagine potente che ha marchiato letteratura, cinema, teatro, musica, fumetti, la qualunque. Ma Genova? Genova è la città più trattenuta, più chiusa, più diffidente d’Italia. Storia non gliene manca, grandezze neanche, personaggi illustri nemmeno; eppure rifugge, non si dà, non si espone. E non è un caso che Bilancia abbia compiuto le sue imprese da quelle parti, lui figlio di immigrati meridionali, ma perfettamente integrato nella sua mancanza di appeal. Il serial killer genovese non poteva che essere così; e, miracoli della letteratura, alle spalle di questo mostro grigio e squallido, più schifoso che pauroso, abbiamo una visione assai convincente e affascinante della più introversa e scorbutica delle città italiane. Poi ci sarebbe pure Beppe Grillo, ma quella è tutta un’altra storia.