Alessandro Barbero, medievista, accademico all’Università del Piemonte Orientale, esperto di storia militare e – a quanto lui stesso racconta – gran giocatore di Wargames e giochi di ruolo, è probabilmente l’uomo che negli ultimi decenni ha diffuso cultura e conoscenza nel nostro apparentemente refrattario paese più e meglio di chiunque altro in precedenza. Forse per la prima volta – almeno dai tempi del maestro Manzi e del suo programma di alfabetizzazione Non è mai troppo tardi, nella Rai ancora pedagogica di Bernabei – un personaggio di culto nazionalpopolare, una superstar mediatica, non è il solito calciatore, cantante rock, attrice o modella poco vestita, ma un prof – figura sempre più bistrattata e vilipesa nella pretesa e presunta opinione comune. Uno studioso con tutti i crismi e le competenze dovute: non un divulgatore dunque, un giornalista, uno di quei tuttologi dell’approssimazione che hanno sempre imperversato sulle gazzette e nelle trasmissioni televisive, uno “storico” alla Montanelli o alla Pansa per intenderci, ma a tutti gli effetti un autorevole e riconosciuto esponente dei temuti e diffidati specialisti.
Questo signore dall’aria affabile e talvolta simpaticamente impacciata si è costruito – solo per merito dei suoi innumerevoli libri di saggistica e narrativa storica e delle molteplici conferenze riprodotte e diffuse sul web, anche in podcast – un seguito immenso di devoti fedeli che, tra il serio e il faceto, in linea con il senso dell’umorismo e la battuta sempre pronta che segnano lo stile del professore, se ne proclamano “vassalli”. E ne annunciano le “invasioni barberiche” o eleggono il garbato medievista torinese – manifestamente uomo di sinistra – a loro “guida verso il socialismo” in affollatissimi gruppi sui maggiori social. Il fenomeno Barbero sfata una serie di comodi luoghi comuni e ci dimostra che se la cultura “non paga” – come vogliono i più – la colpa risiede solo nell’inerzia e nella sordidezza di chi non l’ha saputa promuovere, e non nella cultura stessa (che invece paga eccome…) né tantomeno nella gente – il cosiddetto pubblico, audience, destinatario. Questi, in buona misura, non ne può più di lasciarsi confinare nel dominio della semplificazione e della superficialità, nella democrazia della passività e dell’ignoranza, di una visione del mondo da rotocalco e da spot pubblicitario, quanto mai confortevole solo per mestatori in cerca di folle decerebrate dal voto facile o di consumatori acritici. Là dove le istituzioni competenti sono incompetenti (ministri imbelli, media tradizionali latitanti, fondazioni culturali anchilosate o asservite al potere di turno) c’è per fortuna chi dimostra di sapersi orizzontare con la sola bussola della propria intelligenza, ed è perfettamente in grado – senza bisogno di “consigli per gli acquisti” – di districare percorsi fecondi nell’immenso noise di internet, di scoprire e promuovere autonomamente canali alternativi in cui il passa parola diretto è molto più efficace dell’imbonimento propagandistico e la qualità e il valore della proposta individuata non si limita a un’etichetta applicata a priori ma è un dato di fatto verificabile.
Barbero ci dimostra anche un’altra cosa: la cultura è bella, è piacevole e dà gioia. Troppo spesso abbiamo chiamato cultura la pedanteria, l’ostentazione di un sapere freddo e astratto, il tedio di un gergo astruso da iniziati: qualcosa che allontana e tiene a distanza invece di avvicinare. Un professore che sorride, che si diverte e che sa divertire, che è pieno di entusiasmo per la disciplina che ama e gongola nel piacere di poterla e saperla trasmettere agli altri con lo stesso amore e piacere, è invece il professore che tutti avremmo voluto avere, dalle medie in su, e che forse non abbiamo mai avuto. Come disse Diotima a Socrate, è sempre Eros che ci guida alla conoscenza. Ma oggi troppi – per fortuna non tutti – lo hanno voluto dimenticare.
La storia poi è fatta di storie, grandi e anche piccole: l’imprescindibile scuola di Marc Bloch e Lucien Febvre, gli Annales, ci ha insegnato a interpretare il grande attraverso il piccolo e viceversa. Il menu quotidiano di un contadino medievale è appassionante quanto lo svolgimento tattico di una battaglia. Un intreccio di trame e di personaggi si dispiega sotto gli occhi curiosi di chi districa le fonti per approssimarsi a una visione il più possibile veritiera di ciò che è stato. Lo storico necessariamente deve essere anche un narratore. Così la maestria affabulatoria di Barbero, la sua propensione all’aneddoto, oltre che strategia per rendere più piacevole e accattivante il racconto, è strumento per cogliere, approfondire, commentare i fatti e per offrirne punti di vista diversi, per calarsi su un piano di partecipazione all’evento o di confronto diretto, spesso ironico e disincantato, con l’attualità. La storia, le storie, non sono noiose ma appassionanti, chi ci ha fatto sospettare il contrario sono solo certi accademici – purtroppo assai diffusi nelle nostre università – che non sanno raccontarle. Barbero non appartiene alla categoria.
L’ultimo lavoro pubblicato dal simpatico professore torinese è la perfetta testimonianza di quanto abbiamo appena affermato. Il suo saggio su Dante, saggio ça va sans dire a carattere esclusivamente storico e non letterario, non è affatto un’opera divulgativa ma un testo accademico – con note, bibliografie, citazioni in latino non tradotte, riferimenti diretti alle fonti, ecc. – che nulla concede al culto popolare dell’autore quanto a scorciatoie e semplificazioni, se non per il fatto inequivocabile di essere scritto “bene”: cioè in modo scorrevole, chiaro e “addirittura” divertente. Di questo d’altra parte avrebbe sempre bisogno la saggistica, quella storica in particolare: metodologia, competenze, ricerca, ma anche una penna facile.
Il rigoroso percorso che Barbero traccia attraverso fonti spesso lacunose, dubbie e contraddittorie, ci conduce alla conclusione che le notizie sul “sommo poeta” riportate nei sussidiari delle medie e tramandate nella vulgata come dati di fatto, sono invece largamente congetturali: su Dante Alighieri è molto più quanto non sappiamo – e probabilmente mai sapremo – di quanto sappiamo o crediamo di sapere. L’esatta levatura sociale della famiglia, il rapporto con genitori e fratelli, la data e la natura effettive dell’incontro con Beatrice Portinari, quella del matrimonio con Gemma Donati, il numero e i connotati dei figli, i momenti e le motivazioni della stesura delle opere, la precisa dislocazione e cronologia delle sue peregrinazioni (studiò davvero a Bologna e a Parigi dove esercitò come Magister; quanto visse a Verona, quanto a Padova, quanto a Ravenna?), perfino le definite responsabilità della sua attività politica, prima come priore a Firenze e poi come membro della Parte Bianca in esilio, ci restano sostanzialmente ignote.
Di certo i suoi ascendenti si dedicarono agli affari, diciamo in termini meno evasivi all’usura, come gran parte dei fiorentini dabbene dell’epoca, e senza quella disponibilità economica accumulata dai suoi “maggiori”, Durante non avrebbe potuto dedicarsi integralmente agli studi e alla poesia; di certo fu guelfo e combatté a Campaldino, evidentemente abbastanza ricco da permettersi cavallo e armamenti ma non abbastanza da essere addobbato cavaliere; di certo fu uomo di parte ed ebbe un ruolo di peso nel governo popolare di Firenze pur mantenendo buone relazioni personali con i “magnati” come i Cavalcanti o i Donati; di certo le accuse della Parte Nera che lo portarono all’esilio non furono solo calunnie costruite ad hoc ma ebbero un purtroppo imprecisabile fondamento reale.
Il principale merito della dettagliata indagine di Barbero è restituirci un Dante vero, lontano dalle agiografie falsate e precostituite: non un santo o un Vate fuori dalla storia ma un uomo del suo tempo. Un Dante che accetta naturalmente la necessità delle faide familiari e della vendetta sui propri nemici; che in mezzo ai Bianchi in esilio briga con gli ex avversari ora alleati ghibellini per un comune ritorno in armi a Firenze; che dopo la sconfitta militare si stacca dai Bianchi, facendo “parte per sé stesso”, e si umilia cercando il perdono dei Neri e il condono della pena; un Dante cortigiano che in un ulteriore rigurgito ghibellino collabora con Enrico VII e ne favorisce la discesa vittoriosa in Italia (e – forse – proprio allora scrive il De Monarchia), o che cerca di accattivarsi le simpatie del feudatario di turno, degli Scaligeri, dei Malaspina, dei Da Polenta, a cui chiede rifugio e ospitalità avendone magari già insolentito i parenti in qualche passato canto della Commedia; che infine usa il suo poema come immenso disegno in cui reinventare o giustificare anche sé stesso e la sua famiglia (“O cara piota mia che sì t’insusi…”, Cacciaguida nel XVII del Paradiso solo a citare un esempio…) di fronte agli occhi dei contemporanei e dei posteri. Un Dante umano dunque, figura storica – per quanto evanescente nella scarsità e nell’imprecisione delle notizie – e non immaginetta votiva, feticcio, personaggio immaginario inventato da critici e letterati in cerca di icone da santificare. Anche per questo costante rimando a una visione nitida costruita su uno sguardo concreto, non abbagliato dalle fanfare dell’immaginazione o imbrigliato nei dettami di modelli consuetudinari, ma libero e volto sempre a fenomeni obbiettivi e documentabili – un metodo dunque che è etico oltre che scientifico – dobbiamo ringraziare Alessandro Barbero.