Già a partire dal secolo scorso esiste un’interessante vena sotterranea della letteratura che racconta il gioco degli scacchi. Ci sono autori che contemporaneamente sono anche appassionati giocatori – primo fra tutti Vladimir Nabokov – ma anche altri che si sono soltanto lasciati affascinare dal magico quadrato della scacchiera, da una sfida che simula una battaglia, o forse – paragone ancora più pregnante – in quanto metafora del conflitto che ricalca i procedimenti estetici dell’arte. Troviamo in questo gruppo Samuel Beckett, J. L. Borges, Stefan Zweig, George Orwell; in Italia subito viene alla mente Paolo Maurensig non solo con La Variante di Lüneburg, ma con altri tre libri – e va detto che pure Dante ne subì il fascino.
Mi piace ricordare qui che John Brunner nel 1965 scrisse La scacchiera, un romanzo in cui le azioni dei personaggi ricalcavano una partita del 1892 all’Avana tra Steinitz e Čigorin. Il recente successo della serie La regina degli scacchi tratto da un bel romanzo di Walter Tevis ha portato il filone anche all’attenzione del grande pubblico. Va detto però che La mossa del matto di Alessandro Barbaglia esula un po’ da questa vena, nel senso che non è pura fiction. Ci sono certo ricostruzioni di momenti personali del protagonista che non possono essere tramandati da nessuna biografia, e perciò rimangono nella disponibilità creativa dell’autore, ma il significato di questo libro originale e coinvolgente non è nell’invenzione narrativa, bensì nella costruzione di materiale documentato.
La mossa del matto contiene quattro storie intrecciate: al centro di tutto c’è lo scontro tra lo statunitense Bobby Fischer e il sovietico Boris Spasskij per determinare il titolo di campione del mondo nell’estate del 1972: sfida che divenne evento mediatico senza precedenti (e senza seguito ulteriore) per un gioco che non è uno sport, con risonanza paragonabile a un campionato del mondo di calcio, o a una olimpiade. Fu trasformato volontariamente in un episodio della Guerra Fredda, con gli USA che cercavano seriamente di strappare il titolo agli scacchisti russi, i quali lo monopolizzavano da decenni, passandosi lo scettro uno con l’altro. La finale, che si svolse a Reykyavík, anticipò un’altra partita della Guerra Fredda, il vertice del 1986 tra M. S. Gorbačëv e R. Reagan, da cui scaturì l’accordo per la riduzione delle testate nucleari.
Il secondo plot in questo libro è la vita di Bobby Fischer prima e dopo quell’incontro: quadro spigoloso di una personalità eccezionale, un quoziente d’intelligenza altissimo eppure inchiodato a un titolo di studio risibile (seconda elementare), tarlato da fobie, pregiudizi e pose che sanno di scaramanzia, ebreo eppure dichiaratamente antisemita, autentica macchina da guerra sulla scacchiera, che arriva a Reykyavík dopo avere umiliato i massimi campioni mondiali, schiacciati in tornei in cui quasi non hanno potuto segnare un punto.
La terza storia contenuta è, a sorpresa, l’Iliade, con un interessante parallelo del conflitto tra Fischer e Spasskij, tra creatività e razionalità: il rapporto tra Achille e Odisseo, giustificato punto per punto con una quantità impressionante di esempi; non un vezzo intellettuale dell’autore, ma una trasfigurazione mitica del conflitto che è da sempre alla base dell’arte: fantasia contro ragione, principio violento/distruttivo versus controllato/riflessivo.
Quarto e ultimo motivo è il rapporto padre/figlio, incentrato sul recupero di memoria personale di Barbaglia nei riguardi del padre, celebre psicanalista deceduto nel pieno della vita professionale: è infatti una sua discussione con alcuni colleghi a innescare nell’autore la voglia di ricercare tutto quanto riguarda Bobby Fischer. Questa sottotrama non è isolata, pretestuosa, bensì strettamente legata all’intreccio della storia.
Quest’anno è esattamente il cinquantesimo anniversario della sfida di Reykyavík. In quell’estate di mezzo secolo fa stavo per compiere undici anni; non ero tra coloro che seguivano con passione l’incontro-scontro, partita per partita, però le notizie erano ovunque, sui giornali, nei notiziari televisivi: c’erano allora in tv solo due canali nazionali, impossibile sfuggire a quello che era stato trasformato in un simbolo rovente della Guerra Fredda. Come mio padre, tenevo per Fischer; in seguito ho avuto modo di conoscere meglio e apprezzare di più la figura di Boris Spasskij, che pure esce da questo libro con proporzioni gigantesche: Barbaglia ammette che anche un libro su di lui solleverebbe interesse letterario.
Lo scrittore prende questi quattro fili e li intreccia con forte senso drammatico, ricavandone un ritmo irresistibile che spinge a continuare la lettura fino all’ultima pagina. È interessante verificare come il respiro epico della sfida non sia dettato dalla metafora omerica, ma dalla scansione stessa del dramma, dall’inevitabilità della sua medesima forma, dal modo in cui l’essere umano guarda al conflitto, alla sfida, allo scontro di volontà – e per questo assume un significato universale, fucina di emozioni, centro d’attrazione di una storia eccezionale che l’autore restituisce confezionata in un prodotto estremamente godibile, destinato a restare a lungo nella memoria del lettore.