Alessandra Sarchi / Sono tutte qui – e parlano

Alessandra Sarchi, Vive! Storie di eroine che si ribellano al loro tragico destino, Harper Collins, pp. 151, euro 17,50 stampa, euro 8,99 epub

Provate a leggere una pagina di Vive (ad esempio il ritorno alla carne di Francesca da Rimini) ascoltando il Requiem di Fauré (ad esempio il formicolio dell’arpa sul Sanctus). Provate e terrete, oculis aurisque, una delle ambiguità di questo libro: un inno alla vita che si sposa splendidamente a una messa per morti. Altra contraddizione: il libro che tenete in mano non è un libro. Nascono, Vive, come voci per radio. Avevamo imparato a conoscerle attraverso la serie podcast diffusa dal Piccolo Teatro e da Storielibere.fm, nell’interpretazione di Federica Fracassi. Il fascino primo stava proprio lì, nelle modulazioni di una voce così abile nel restituire quel déchet du sens, quel “residuo di senso” che, come ricorda Alessandra Sarchi in apertura, “sfugge tanto alla parola, quanto all’immagine”. Parola di scrittrice e di storica dell’arte.

Era seducente ascoltare, illudersi di ascoltare, la voce di Emma Bovary e di Anna Karenina, ma anche di Didone e di Francesca da Rimini, di Hedda Gabler e di una ritrovata Albertine – per citarne solo alcune; tutte sfuggite alle loro defunte eternità letterarie e, per dir così, ad altro fato redente. E perché no, dopo tutto? Un’Ofelia viva val bene un massacro alla reggia di Elsinore.

I podcasts seguivano un andamento bipartito che il libro ha mantenuto: alla contestualizzazione segue la reincarnazione. A quest’ultima parte è legato l’aspetto più appariscente di Vive, ossia il ritorno alla vita di figure letterarie femminili che credevamo defunte: tutte, qui, parlano di voce propria, in prima persona, spiegando il biforcare del destino dalla gabbia di un personaggio alla conquista di un’autorialità. La parola è presa attraverso lettere che le eroine scrivono ai loro autori (maschi) o ad altri personaggi (femmine) del libro (si noterà che le lettere agli autori – Flaubert e Proust – aprono e chiudono il libro); oppure attraverso la forma del monologo, cui è comunque sottesa una dimensione dialogica: il tu si confonde ora nella persona amata ora nel sé che sta per tornare alla vita; Ersilia Drei, quasi parlasse ancora dal suo palcoscenico, si rivolge a voi.

La parte contestualizzante dei capitoli costituisce, come avverte Sarchi “un modo per ripercorrere in maniera critica la ricezione dell’opera”, ma può anche servire per stuzzicare il lettore felicemente ignorante e desideroso di andare a scoprirsela, quell’opera. In questo senso, Vive funziona sia nell’una che nell’altra direzione: a eroine centrifughe corrispondono lettori centripeti. Ammesso che il centro di tutto sia l’opera d’origine.

Descritto così, Vive, può sembrare un gioco. Un gioco impegnato, ovviamente, e val la pena chiedersi quale ne sia la posta. Nel passaggio dall’oralità alla scrittura si è aggiunto, come premessa, il capitolo Il corpo e l’eredità di Eco. È qui che la dimensione militante sbatte contro un soffitto di vetro. Scrive Sarchi: “immaginare un destino diverso per queste eroine è un atto letterario che non vuole giudicare né cancellare il disegno originale con cui sono state concepite, ma sviluppare uno spazio nuovo, possibile”. Ma dove sono gli uomini in questo nuovo spazio possibile? Christine de Pizan aveva immaginato la sua Cité des dames a esclusivo appannaggio delle donne (e, tra le donne, solo le nobili e virtuose). Sono passati più di seicento anni e, in Vive, Flaubert può avvelenarsi beatamente del suo inchiostro (non ha detto forse “Madame Bovary, c’est moi”?): ormai è Emma a menar la penna; Saint-Preux se ne rimanga pure a scrutare il paradiso dalle sponde di Clarens: Julie è già altrove (“potremmo vivere insieme – scrive Julie alla cugina Claire – tu, io e i bambini… siamo abbastanza econome da saper amministrare i nostri beni e il nostro fabbisogno, siamo madri capaci per i nostri figli. Non avremo mai più bisogno di mariti e di padri”).

È questa la sola altra vita possibile? Nell’affermare che si vuol riscrivere le sorti di Francesca da Rimini, Emma Bovary, Didone, Marguerite Gautier, Hedda Gabler, Ofelia, Ersilia Drei, Julie, Anna Karenina e Albertine “a partire da quei punti ciechi e contraddittori in cui i rispettivi autori le hanno fatte vivere” non è forse proprio l’autrice a suonare ambigua? E c’è poi, ed è aspetto tutt’altro che secondario, la questione della lingua (sia detto con buona pace dei Cinquecentisti): “Oggi si discute, finalmente – scrive ancora Sarchi – sulla prevalenza delle terminazioni e degli accordi al maschile in italiano, e si avverte come problematico l’orientamento inconscio che determinano, ma per quanto tempo lo si è dato per scontato?”. Finalmente? In Francia il dibattito sulla scrittura inclusiva ha toccato vertici di oziosità. Il francese è, se guardiamo al lessico delle professioni, molto più maschilista dell’italiano; eppure la Francia resta ancora, con tutte le sue imperfezioni, un paese più egualitario dell’Italia. O allora dobbiamo forse pensare che il genere neutro in lingua sia garanzia di parità sociale? No, sicuramente fuorviamo. Ma, deviazione per deviazione, quanta voglia abbiamo, dopo Vive, di andare a rileggere Tolstoj. Non è vero, dopotutto, che “si muore un po’ per poter vivere”?