Vivono nello smarrimento frutto della caduta dell’Unione Sovietica i protagonisti di Il Geografo si è bevuto il mappamondo, esordio narrativo di Aleksej Ivanov, oggi assurto alla statura di classico. Opera dalla stesura tormentata, riscritta dopo la perdita delle prime versioni, pubblicata in maniera frammentaria e finalmente edita nella forma voluta dall’autore nei primi anni duemila. Parafrasando un modo di dire russo, “il comandante si è bevuto le mutande”, l’autore definisce nel titolo l’attitudine al bere del protagonista. Viktor Služkin è un poco di buono e un eroe, immaturo e fragile, materialista e sentimentale al tempo stesso. Il suo essere assunto a scuola per insegnare una materia che conosce appena simboleggia il suo disorientamento. Non a caso, all’inizio del libro, si finge sordomuto per sfuggire a due controllori. Il suo rapporto con la realtà è mutilo, privo di coordinate certe. La disillusione è la cifra del romanzo. Poter ottenere ciò che si desidera è un’illusione dell’adolescenza, o delle trascorse utopie sovietiche. In realtà, anche quando sai cosa stai cercando, “capisci di averlo trovato solo dopo che l’hai perduto”.
L’annuncio della morte di Brežnev, fornito naturalmente in ritardo rispetto al reale accadimento, rappresenta uno spartiacque. La dimensione del caos caratterizza gli anni Novanta. I critici hanno scomodato Lermontov e Čechov, Dostoevskij e Puškin per definire la narrativa di Ivanov. In realtà chi scrive riscontra alcune affinità con Vasilij Aksënov. Nel Biglietto stellato lo scrittore originario di Kazan descrive l’inquietudine di un gruppo di ragazzi moscoviti; la loro fuga verso l’Estonia è una ribellione e un gesto anticonformista, in una società che non tollera il dissenso. Nella stessa maniera, fulcro del libro di Ivanov è il viaggio avventuroso del Geografo e dei suoi burrascosi allievi nella Taiga. Un’esperienza dalla quale emergeranno inevitabilmente cambiati. Metafore conflittuali definiscono la natura impervia. Dai crepacci spuntano tronchi come fucili, mentre gli abeti si allungano come baionette.
L’ansia della paventata catastrofe atomica, incubo della guerra fredda, incrina ancora la coscienza del protagonista. Il paesaggio naturale rivela all’improvviso le rovine di un lager abbandonato, con il filo spinato e il dolore che ancora sembra infestare il luogo. L’orrore ritorna, mentre il futuro è oltremodo incerto. Le galassie splendono in lontananza, inattingibili, mute testimoni del destino dell’uomo. A tratti la narrazione sembra incontrare lo spensierato e al tempo stesso malinconico procedere di alcune pellicole sovietiche degli anni Sessanta, come il noto A zonzo per Mosca di Georgi Daneliya. Il frequente ricorso al dialogo dona immediatezza al dipanarsi della vicenda. Amori trascorsi screziano il grigiore della quotidianità familiare, facendo balenare quello che non è stato. L’umorismo, indubbiamente presente, scolora in un’infinita tristezza. Il sentimento adolescenziale del Geografo per una sua allieva si rivela impossibile da realizzare. Essere vivi significa allora abituarsi a perdere, convivere con il dolore che inevitabilmente si prova. La morale è che non si può insegnare nulla, ma si può solo condividere l’arco temporale che ci è concesso e la comune solitudine.