Il ritorno al romanzo di Alejandro Zambra, dopo diversi anni nei quali l’autore si è dedicato ad altri generi (si veda, a esempio, il caso divertito e divertente di Risposta multipla, pubblicato in italiano da SUR nel 2016), è anche un ritorno alla poesia. Lo si capisce dal titolo, certamente, ma anche da quel che si legge quasi a ogni pagina, nel romanzo, e nella chiusa apodittica di un sottocapitolo: “gli scrittori cileni scrivono romanzi sui poeti cileni”.
Da Vicente Huidobro a Pablo Neruda, da Pablo de Rokhas a Nicanor Parra, da Enrique Lihn – purtroppo l’autore meno tradotto, in Italia, in rapporto all’importanza della sua opera – a Raúl Zurita, passando per Gabriela Mistral o Elvira Hernández, la poesia cilena è una presenza costante nel romanzo di Zambra, nonché nella storia culturale del suo Paese. Lo è, però, al pari di una musica di sottofondo, o forse di un possibile appiglio – per quanto labile – per saggiare un intero Zeitgeist, o ancora e in modo decisivo, come eterno ritorno di un’ossessione, allo stesso tempo culturale e politica.
In altre parole, sembra esserci un “problema del Cile con la poesia”, poiché quest’ultima – pur senza prospettarsi come il genere di punta della letteratura di quel Paese, quanto alla notorietà o alle vendite – può infilarsi in ogni anfratto, o quasi, delle storie individuali e collettive. A quest’ultimo proposito, si noti, fra i vari possibili spunti, come nel romanzo appaia – incidentalmente, ma più a riprese – la figura di Camila Vallejo: classe 1988, già leader dei movimenti di protesta contro il governo Piñera, oggi deputato del Partido Comunista de Chile… e molto più nota – come chiosa lo stesso Zambra, en passant – rispetto all’omonimo poeta peruviano César Vallejo, entrato, invece, nel canone letterario latinoamericano e mondiale del Novecento.
In ogni caso, in primo luogo si tratta di storie individuali: nonostante la presenza costante, invadente e perfino, a tratti, irritante – com’è legittimo che possa essere – della poesia, il romanzo di Zambra è anche, e con la medesima potenza, un romanzo famigliare, creato dall’intreccio delle vite di Gonzalo, Carla e Vicente, e di altri personaggi che circondano questo precario nucleo famigliare (non ultima la gatta Oscuridad, che appare tanto in copertina quanto nel corpo del testo).
Più specificamente, Poeta cileno è un romanzo sul rapporto tra un padrastro (“patrigno”, e implicitamente anche “poetastro”) e il figlio adottivo. Entrambi poeti wannabe – al contrario di Carla, fotografa, e di un’altra donna, Pru, ritrovatasi quasi per accidente nell’impresa di un reportage giornalistico –, rappresentano bene l’androcentrismo della tradizione poetica cilena nel ventesimo e ventunesimo secolo. Si ritorna di nuovo, dunque, alla poesia cilena: Gonzalo e Vicente, tra l’altro, non sono gli unici personaggi finzionali del romanzo ad avere una vocazione poetica; la terza sezione del libro, Poetry in motion, ne raccoglie una gustosa carrellata, che prende a piene mani dal Roberto Bolaño dei Detective selvaggi, ma anche della Letteratura nazista in America.
A questi personaggi fanno da contraltare i protagonisti storici, e variamente storicizzati, della poesia cilena. Se a Nicanor Parra è dedicato un vivace episodio che ha il merito di raffigurarlo piuttosto fedelmente, pur nell’invenzione narrativa, a Raúl Zurita sono dedicati alcuni passaggi pseudo-critici decisamente più ambivalenti. Zambra esce dalla scia di Bolaño, che di Zurita aveva persino fornito una trasfigurazione (una de-figurazione, per meglio dire) “fascistizzata” in Stella distante, e preferisce spostarsi su una critica più moralistica della posizione di Zurita nel panorama letterario cileno – salvo poi sottolineare la grandezza del suo libro eponimo, intitolato, appunto, Zurita, del 2012.
Libro voluminoso, e dunque critica ancor più ambivalente (nonché poco riuscita, secondo chi scrive, e non soltanto per presa di posizione personale) da parte di Zambra – se si considera, tra l’altro, che il libro è infarcito di prove poetiche finzionali dei vari personaggi che vi sono convocati, con alcuni testi che gettano una luce vagamente grottesca, se non sulla produzione poetica giovanile di Zambra stesso (Bahía inútil, del 1998, e Mudanza, del 2003), almeno sulla capacità critica che un romanzo intitolato Poeta cileno si trova, inevitabilmente, a dover esprimere.
Per quanto riguarda la struttura narrativa del romanzo, invece, Zambra conferma l’apparentemente anodina citazione dell’articolo di El Mundo posta in quarta di copertina, per la quale “quello di Zambra è uno degli stili più riconoscibili della nostra letteratura” (intesa, probabilmente, come letteratura peninsulare e al tempo stesso latinoamericana); tuttavia, la conferma, ulteriormente consolidata dalla prova di bravura della traduttrice italiana, Maria Nicola, risulta tanto evidente che, quando l’autore si immischia con la narrazione e osserva che gli “verrebbe voglia di continuare a scrivere fino a pagina mille”, il lettore è certo che Zambra, capace di costruire macchine narrative indiscutibilmente valide e affascinanti, potrebbe effettivamente andare avanti per altre cinquecento pagine senza annoiare più di tanto il proprio pubblico.
In ogni caso, poco dopo quest’ultima citazione, Zambra ci lascia con un paio di fulminanti paragrafi, che valgono la lettura dell’intero libro. A conferma del fatto che materia dei romanzieri cileni resta, inevitabilmente, il romanzo stesso.