La collana Parole Controtempo dell’editore Il Mulino Editore porta avanti una riflessione su termini e concetti culturali che tendono a evolversi, assumendo valori via via diversi. L’ultimo volume apparso, Progresso, a firma di uno dei nostri storici più conosciuti e apprezzati, Aldo Schiavone, affronta un tema particolarmente controverso. Lo studio, sintetico ma debitamente approfondito, pone alcune cogenti domande, dalla formulazione semplice ma dalle risposte quanto mai complicate: Ha ancora un senso parlare oggi di progresso? E se sì, quale? E in ogni caso, cos’è che dovremmo chiamare progresso? Per rispondere a questi interrogativi Schiavone propone un viaggio, articolato in tre fervidi capitoli, nella cultura e nella storia umane, ma anche nella preistoria e nelle remote origini della nostra specie, affiancando a concetti tipicamente storici e filosofici altri afferenti all’evoluzione e alle scienze non umanistiche.
La riflessione parte dalla celebre e suggestiva lettura che Walter Benjamin diede del quadro di Paul Klee, Angelus Novus, e dalle reazioni suscitate dall’idea di progresso. A noi contemporanei, inghiottiti “da un grumo di pessimismo, di smarrimento e di incertezza”, la nozione positiva del progresso appare “desolatamente inattuale, fin quasi a renderne persino impronunciabile il nome”. Ma così non è sempre stato, e questo studio ripercorre le tappe della modernità occidentale, fondata sulla convinzione d’un costante mutamento verso il meglio delle vicende umane, sino al culmine raggiunto nell’Ottocento quando, sull’onda delle grandi rivoluzioni della tecnica, dell’economia e della politica, si affermò una visione che vedeva nel progresso il motore della storia, disintegratasi davanti agli orrori dei due conflitti mondiali e sostituita da un “pensiero negativo” fortemente critico. A partire poi dagli anni Settanta del secolo passato, con gli sviluppi impetuosi dell’intelligenza tecnologica e scientifica, accompagnati però dall’assenza di una razionalità di politica e di governo adeguata ai nuovi scenari, si è vieppiù diffusa una pervasiva sfiducia nell’idea di progresso e persino di futuro: è il mondo globalizzato in cui viviamo.
Postulata così la situazione attuale, nel secondo capitolo l’autore suggerisce di impostare su basi diverse il discorso sul presente, di mutare punto di visuale, di considerare le cose “con maggiore oggettività”, chiedendosi se la crisi non sia invece proprio nella nozione di progresso comunemente intesa. Formula così la fondamentale domanda: Cos’è che dovremmo chiamare progresso?
Per trovare le risposte propone “un piccolo esperimento mentale da svolgersi in quattro quadri”. Chiede cioè al lettore di allargare il discorso sulla storia, spingendo la ricerca nel cammino evolutivo della nostra specie ad almeno un milione di anni fa, quando apparvero l’homo habilis e l’homo erectus. Mettendo a confronto quelle remote epoche preistoriche con l’oggi, Schiavone nota “una progressione irreversibile”, la quale sottintende che la storia dell’umano, riguardo alle capacità cognitive e di controllo dell’ambiente che l’ha prodotta, è una vicenda che si è indubbiamente svolta secondo il paradigma del progresso. Queste conclusioni però non bastano a farci supporre che essa sia una storia progressiva, poiché la nostra vita “non è soltanto il luogo delle tecniche e del pensiero che le produce e le sorregge”. Assumendo per esempio il punto di vista delle idee morali cui vengono affidate le giustificazioni dei comportamenti dei singoli, la parabola del Novecento rappresenta una spaventosa regressione, “una specie di azzeramento del rapporto tra tempo e civiltà”.
Ma a questo punto Schiavone ci propone di compiere un ulteriore passo: spingerci nelle insondabili profondità del tempo evolutivo dell’intero pianeta, nel quale la specie umana è solo una minuta parte. Appare così la dicotomia tra storia evolutiva e storia culturale, fra i tempi dell’evoluzione e quelli dello sviluppo dell’intelligenza. Nel primo caso, parlare di progresso o regresso non ha senso: è una nozione “inservibile”. Dunque, l’utilizzabilità del concetto di progresso dipende, nella storia della vita, dal modello di riferimento che assumiamo.
La proposta qui avanzata è di non escludere reciprocamente queste due prospettive, bensì provare a tenerle insieme. I due tracciati evolutivi – storia della vita, e dell’intelligenza e delle civiltà – si sono svolti lungo strade che sembravano ben distinte, ma oggi “questa lunga separazione sta per finire e l’annuncio contiene una novità sconvolgente”. Dopo la svolta dell’autocoscienza, “siamo davanti al più grande cambiamento nella storia dell’umano: siamo infatti arrivati vicinissimi alla frontiera che divide i due mondi, quello naturale e quello propriamente culturale”. E in questa riunificazione “c’è il senso più profondo della rivoluzione che stiamo vivendo: con tutti i suoi enormi rischi, e insieme le sue straordinarie potenzialità”. Tale riunificazione è evidente nei risultati sempre in divenire delle scienze (metodologie di clonazione, fusioni tra bioingegneria e nanotecnologie, sviluppi dell’intelligenza artificiale anche su base quantistica), tutti proiettati “in un’unica direzione”. Morale: “Siamo sul punto di staccare completamente la vita dell’umano dalla naturalità della specie”, e questo ambiziosissimo traguardo “finirà prima o poi con il coinvolgere anche la nostra esperienza della morte, e dunque il nostro rapporto tra finito e infinito”. A questo punto si pone un’altra indifferibile domanda: “La svolta che si sta profilando, e che porterà l’umano fuori dai confini della specie, può essere definita come un progresso?”
La risposta viene abbozzata nel terzo capitolo, dal titolo eloquente, “Il futuro ritrovato”, che riporta il discorso sui tempi della storia, creando un interessante “contrappunto” tra antichità greco-romana e modernità, il cui approdo è la formazione “dell’idea propriamente moderna dell’emancipazione di tutto l’umano”, raggiunta grazie ad una soglia di tecnologia che l’ha resa possibile. Da qui, il passo successivo: “Il progresso tecnico accresce in modo drammatico la potenza della specie”, acquisizione che in astratto può tradursi “in una maggiore liberazione per tutto l’umano”. Il futuro si giocherà nell’equazione tra “potenza trasformatrice” e suo “controllo razionale”. Assumendo questa prospettiva ricompare il discorso del progresso, la storia riacquisisce una direzione (“si muove secondo una freccia”), anche se a noi così non appare, traditi come siamo “dalle false apparenze di un percorso che solo sulla lunga durata rivela il verso autentico del suo tracciato”.
A questo punto, consapevoli del salto tecnologico che sta modificando tutti gli scenari della nostra civiltà, Schiavone prefigura il passaggio ineludibile che attende l’umanità: la disponibilità “all’uso concreto di tecnologie che, attraverso procedure di editing genetico sempre più sofisticate, permetteranno di modificare lo statuto biologico della specie in modo tanto profondo da cambiare la struttura stessa del rapporto fra ‘corpo’ e ‘persona’”. Su questo punto Schiavone è oltremodo chiaro: aprire un dibattito pubblico, spingere la politica e la riflessione etica a misurarsi su questi temi è diventata ormai una priorità indifferibile.
Una sfida faustiana attende dunque l’umanità, per vincere la quale bisogna elaborare “una nuova teoria dell’umano”, fondare “un’antropologia culturale, politica e morale dell’uomo” che integri la tecnica dentro di sé, che sia in grado di accompagnare e orientare la rivoluzione, appena agli albori, che stiamo vivendo. Siamo nel cuore del progetto culturale che lo studioso di Pomigliano d’Arco porta avanti da tempo: la definizione di un nuovo umanesimo, “di una filosofia che ci consegni un’immagine e un’etica dell’umano che sappiano andare oltre l’individuale”. Il libro si conclude con una postfazione, “Virus e idee”, in cui si riflette sull’emergenza prodotta dal Covid-19, messa in relazione con le tesi esposte in precedenza, che in essa troverebbero conferma.
Al termine del vertiginoso viaggio nelle remote radici della nostra specie e nel futuro che l’aspetta, sul lettore di questo affascinante studio aleggia una sensazione inquietante, e non solo per gli interrogativi sollevati: che l’imponente impalcatura teorica che lo sostiene, indubbiamente suggestiva e gravida di fruttuosi dibattiti e riflessioni, poggi su fondamenta alquanto mobili: un po’ come la sottile crosta terrestre posata sul magma rovente del suo nucleo – basterebbe uno slittamento appena più accentuato d’una placca per distruggere le magnifiche sorti e progressive dell’umano, cancellando in un attimo le straordinarie conquiste della sua intelligenza. Sui tremendi rischi insiti nell’immane sfida che attende l’umanità Schiavone volutamente non si sofferma, ritenendoli lontani dagli intenti del libro, che riguardano “solo i profili concettuali e culturali della questione che stiamo affrontando”. Ma le domande suscitate da questo studio rimangono, ineludibili: saremo davvero capaci di vincerla, quella sfida? Sapremo “adeguare a un salto tecnologico vertiginoso una capacità di costruzione sociale, etica, politica, giuridica in grado di sostenerne gli effetti e di orientarli” verso “una maggiore libertà dell’umano, e di una sua maggiore capacità di comprendere e di realizzarsi”? Fino a che punto ha senso misurare il grado di “civiltà” dell’umano col totalizzante parametro del progresso delle scienze e delle tecniche? Staccare la vita dell’umano dalla naturalità della specie è poi così saggio?
Schiavone si dice “pieno di speranza”. Noi, molto più modestamente, siamo terrorizzati dal monito insito nel mito di Frankenstein (che pure egli ci incita a superare), e non riusciamo a esorcizzare l’incancellabile figura della hybris, uno dei più alti insegnamenti dei sapientissimi greci nostri progenitori, che nei loro miti tutto avevano già prefigurato, anche e soprattutto l’anelito al superamento dell’umano così sciaguratamente ricercato dalla nostra specie.