Aldo Nove ha sempre definito la propria scrittura (nei romanzi così come nelle opere di poesia) dentro il fuoco dei quotidiani gesti, assumendone per intero la lingua come unica realtà possibile, traendone anche l’insensatezza dei tempi. Nonostante la propaganda delle stelle, che è una questione di vita e morte sprofondata per intero nell’intimo delle cellule, fino agli atomi e di lì direttamente nei cervelli che ospitano la mente. Tutti sospesi in questa ideologia del cosmo, mai indenni e quasi sempre compresi in una ostruzione della realtà, che proprio in questa piega gravitazionale dello spazio-tempo siamo stati sistemati.
Pulsar inizia la sua storia, il racconto di essa, nel 1967 – quando il protagonista, Antonello Centanin, nasce “nell’ospedale del circolo di Varese”. Successivamente gli anni, talvolta in ordine discontinuo, si presentano come se una rivoluzione virtuale venisse legata strettamente all’idea che le parole, brutali o innamorate, collettivamente queer come “onde emigrate dal cuore”, si sollevassero dalla rigogliosa Africa per passare alle madri, e dalle madri ai figli. Ecco cosa la scena terrestre ha riservato a noi – in questo Novecento che ci ha conosciuto fin quando è finito.
Nove lo conosce bene, il Novecento, lo ha legato alla propria vita come può farsi con gli amanti alla luce degli astri, della luna e dei pianeti. Sappiamo per quante pagine il suo essere scrittore, poeta, ha argomentato sui molteplici punti cardinali: Occidenti e Orienti letterari e filmici, e televisivi, fino a quando il mondo ha smesso di essere mondo sotto i temporali climatici e trumpiani. Ma il mondo di Centanin si chiama Viggiù, creato per amore (fisico) della madre “venuta dalla Teronia”, che viene presentata nei capitoli primari di questo libro dove si trovano le stagioni italiane del Luglio col bene che ti voglio, del Reader’s Digest (chi di noi, boomers, non ha ricevuto in regalo l’abbonamento a “Selezione del”?), dei familiari sull’orlo del mito (personale e collettivo, sia chiaro), al seguito degli anni e delle annate fin quando il tempo s’espande al punto da sparire nelle famigerate “singolarità” del multiverso.
Nove fa amoreggiare la luna degli astronauti con Viggiù, e lo fa talmente bene che quella cittadina diventa somigliante alle migliaia di cittadine italiane, dove migliaia di ragazzini leggevano La nausea e flirtavano con Ungaretti allontanandosi dai portoni delle Scuole statali. È un impegno che dà sorpresa, almeno quanto la scomparsa dell’infanzia, improvvisa senza che nulla di venerabile si presenti durante la maturità. I mostri avanzano nei decenni successivi, e chi vieta Ultimo tango a Parigi merita la distruzione della Mir, la stazione spaziale sovietica perita nel fatidico 2001. La decade, in Pulsar, si trasforma nella pornografia del tempo, una specie di colonia penale a cui i terrestri devono giocoforza adeguarsi per loro stessa punizione autoinflitta. “La morte ha il suo rincaro fedele”, scrive Nove, e non basta la malizia gigiona di Hannibal Lecter a salvare Clarice/Jodie Foster, grata per l’occasione giuntale addosso. Ma poi al nostro scrittore basta amare Dino Campana e Donna Summer (ma non solo) perché all’annichilimento delle Twin Towers sia negata la veridicità del Truman Show, e tutto resti uguale alla catastrofe originale, non “remastered”.
Siamo felici, leggendo, che l’umano sia passato a lungo per la stazione Nord di Milano, rendendola abitabile e reale, almeno fino a quando le strade furono riempite dai mezzi militari e tutta la geografia si chiamò Covid, così come ogni strada chiusa, e ogni appartamento. Da lì i tempi si sono “rimescolati” e la memoria dell’io (l’umanità è “all’inizio della sua evoluzione”) ha cominciato a dissolversi in onde, ha cominciato a sbiancarsi, sempre di più, così come le pagine del romanzo al suo compimento: pagina 233 e seguenti…