Aldo Nove, definitivamente incarnato nell’attualità del mondo, in piena questione interrogativa sulla natura dei versi, nel novello “Galateo” di questo secolo bastardo che guarda – riguardato – alla sempre più necessaria visione paesistica (e dunque mondiale) di Zanzotto, ricompone giorno dopo giorno (dal 4 dicembre 2020 al 15 gennaio 2022) i propri schemi umani ancora sotto quelle costellazioni sempre più lontane e ormai (si suppone) scomparse. Schemi che sono precipitati d’esistenza, null’altro di meno a ridosso di quanto sappiamo, e abbiamo visto, di questo Ventennio. Consueti suoi gesti quotidiani si fermano in 350 sonetti – durissimi quanto può esserlo la metrica di tale forma poetica – che attestano la resistenza dentro il “trauma di cui s’ignora la natura”. Nove si rivolge al sé suo e al nostro, agli amici e fratelli sprofondati nelle ingannevoli geometrie che ci siamo inventati, dopo aver arato per tutto il Novecento la scena terrestre che ci contiene. Nel teatro da noi sceneggiato eccoci mandati allo sbaraglio fin quasi oltre il bordo, dove il meglio e il peggio si confondono nel computer e dove Nove vede bene come Shakespeare e Petrarca “affondano sodali”.
Un vasto salmo c’è stato per il poeta, nei Poemetti della sera (2020), tutte le colpe riunite fin dove si può, e ora la memoria poetica mostra la sua vastità, postuma ma non astratta, e ben presente nella “pagina di quarzo” mutuata da Milo De Angelis e qui condotta per tutti i “nati sulla terra”. Non è più epoca di salmi ma di visione estrema dall’odore di sangue e di ricordi. Ci si innamorava di donne, e dunque del mondo, oggi essere sedotti dal sonetto sembra l’estremo azzardo, e riprovarci l’ultimo attestato di forza.
Indulgenza non è parola da ricordare, né sul colle di Recanati (per esempio, là dove s’affollano epigoni) né sui foglietti come utile prassi domestica a ridosso di tastiere digitali scariche. Sarà bene qui ricordare che una persona irriverente e svelata risulta preziosa, soprattutto riascoltando versi veterani: “Chi muore è volgare: / gentilezza battuta / dalle foglie austera. // Sempre mi alzo a vedere primavera. / Nessuna quaresima smentisce il sole. La gioia non ha bisogno, / di noi.” Poi arriva Alexa, un affare che funziona bene o forse no ma consente all’assenza di definirsi, come appare nel sonetto 312, dove la questione è sempre la stessa: essere contemporanei, e definitivi.
Nel fuoco dei gesti s’incanala la biografia e la caduta dei tempi che non hanno più la riabilitazione verso cui si muovevano le menti migliori. Queste oggi si scontrano con luci terree non di mondi esterni ma del nostro mondo, sempre meno conosciuto dal poeta. Il fuoco ha indefessa volontà: poiché veleggia ancora ogni giorno nel sonetto vivo, e il suo suono si comprende. Gente sequestrata, o tramortita, scrive Nove, dovrebbe riuscire a oltrepassare i molti 11 settembre che ricordiamo, uno ogni anno, uno ogni qualvolta la terra trema e gli affetti si accumulano e diventano lembi di realtà sotto cui sottostiamo. Chi esiste deve mostrarsi a chi sa dare il nome alle cose, sempre in attesa che ciò avvenga. Ecco, possiamo dire che ogni sonetto di questo libro “definitivo” è il nome di una cosa, definito, inchiostrato. I nomi, a oltranza, si muovono contrari al silenzio nonostante si parli. Nel giorno decisivo: “…contro tutto fu e sarà l’umano”.