Alberto Grandi, Daniele Soffiati / La leggenda non si mangia

Alberto Grandi, Daniele Soffiati, La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici, Mondadori, pp. 272, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

Oltre che divertente e intelligentemente iconoclasta il libro di Alberto Grandi – professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma – e del suo sodale Daniele Soffiati, testo che ripropone molti degli argomenti già più volte indagati dal duo di studiosi nel loro fortunato podcast di cucina DOI-Denominazione di Origine Inventata, ha un valore che va molto al di là dell’argomento specifico, pur interessantissimo e addirittura appassionante (dal momento che tutti quanti mangiamo per vivere, e in casi non troppo rari in molti viviamo per mangiare), arrivando ad assumere una rilevanza che non esiteremmo a definire di ordine politico e filosofico.

In questa Europa dove purtroppo l’estrema destra sta rialzando la cresta come il galletto di un allevamento intensivo, piuttosto spennato, ma sempre ben pompato di antibiotici e mangimi iperproteici, in questa Italia dove i postfascisti al governo si fanno di giorno in giorno più arroganti e protervi e le parole d’ordine più abusate nei loro abborracciati proclami sono e continuano a essere identità e tradizione (scritte di solito con la lettera maiuscola – in mancanza di argomenti solidi le maiuscole si sprecano), mettere in discussione tali concetti – in senso più ampio e generale possibile – equivale a mettere in discussione un’intera visione del mondo e una stessa idea di potere. Perfino la recente riorganizzazione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, trasformato in Ministero della Sovranità alimentare, ha spostato esplicitamente il campo del sovranismo addirittura in ambito gastronomico e culinario. Sfatare con argomenti concreti la componente mitologica, falsa, inventata della tradizione (non millenaria ma recentissima) e dell’identità (non singolare ma plurale), anche riguardo al cibo, ci aiuta ad arginare dunque la distruzione della ragione – tanto per citare il titolo del celebre saggio dove il filosofo György Lukács identificava le componenti ideologiche irrazionalistiche che conducono al fascismo – e ad evitare se non altro, si parva licet componere magnis, almeno le ottusità del gastronazionalismo.

Così Grandi e Soffiati dimostrano, dati storici alla mano e riferendosi a una documentatissima bibliografia, che “la cucina migliore del mondo” (la nostra, Ça va sans dire) è un’invenzione del marketing e risale in realtà non certo ad Apicio, al Medioevo Carolingio o alle Signorie rinascimentali, ma tuttalpiù al boom economico degli anni ’60, all’avvento dei supermarket, della refrigerazione e degli elettrodomestici. La gastronomia nazionale è figlia del Piano Marshall e di Carosello. Prima di allora l’Italia è un paese di morti di fame: si sopravvive, quando va bene, a forza di polenta scondita e solo pochi fortunati, in certi rari periodi meno grami, riescono a consumare ben cinque chili di carne all’anno, la razione più bassa di tutta Europa (ovviamente, come accade sempre con le statistiche, qualcuno se li mangia tutti e cinque e qualcun altro la carne la vede solo in sogno). Saranno gli emigranti, migliorando altrove le proprie condizioni economiche, a includere finalmente nella dieta quei prodotti che il paese di origine ha sempre loro negato: la cucina italiana nasce in America, dove gli italiani analfabeti e che parlano solo dialetto e non si capiscono tra loro, usando la nuova lingua del paese che li ha accolti per comunicare, scoprono che una sola cosa li accomuna davvero: la fame. Nasce così la fusion fatta di pasta (consumata prima solo in Sicilia e a Napoli, come cibo da strada talvolta zuccherato e più tardi fieramente avversata da Mussolini e dai fascisti, in quanto il grano duro necessario a produrla doveva essere importato data l’insufficiente produzione nazionale), di olio d’oliva (ovviamente, prima del calo dei sussidi della Comunità Europea per l’agricoltura, nessuno si sognava di identificarne l’origine o la varietà e veniva miscelato tutto insieme), di pomodoro (che proprio in America viene inscatolato per la prima volta), di formaggio (il Parmesan del Wisconsin, lo stato USA più ricco di mucche, derivato dal formaggio italiano chiamato Parmigiano o Piacentino o Lodigiano o Grana, e da cui deriva quello – molto diverso – che è per noi oggi il parmigiano, vanto della nostra gastronomia) e infine della tanto bramata carne. Sono proprio questi italiani d’America che, quando ritorneranno nella Madrepatria, importeranno le loro nuove abitudini alimentari ricostruendo quella tradizione inventata che è diventata la Tradizione (come sempre una bella maiuscola serve a dare credibilità a un mito “tecnicizzato”, posticcio, rispetto al mito “genuino”, per dirla come il filologo Károly Kerényi, e questo vale per la Storia delle Religioni come per la Cucina).

E Artusi, ci si chiederà, allora? Pellegrino Artusi era soprattutto un appassionato, uno scrittore e non un cuoco, e raccoglie nel 1891 le ricette non certo comuni o diffuse di una cucina praticabile dalle sole classi borghesi e benestanti: piatti spesso derivati da altre cucine europee più ricche di quella italiana, come la francese e perfino l’austriaca (ahimè, pare proprio, stando a certi documenti che i due autori non mancano di citare, che la Wiener Schnitzel preceda la Cotoletta alla milanese) e a base di prodotti consumabili solo da una ristrettissima élite. Alla cucina popolare invece resta solo la polenta e alle masse la pellagra. Il discorso non cambia molto per il secondo trattato storico della cucina italiana, Il Talismano della felicità, pubblicato nel 1929 da Ada Boni: la crisi economica di Wall Street e, poco dopo, l’autarchia non migliorano certo la situazione. Non dimentichiamoci che ancora nel 1951 solo il 7% delle case italiane ha acqua potabile, elettricità e servizi igienici; l’Italia del duce queste meraviglie le aveva viste solo nei film dei Telefoni Bianchi: saranno piuttosto le Razioni K di Ancel Keys, il pacco viveri dell’esercito statunitense, a rimpolpare qualche caloria negli organismi debilitati dei neo-cittadini repubblicani, e sarà lo stesso Keys, più tardi, a inventare nel 1959 un concetto che avrà grande successo mitico e mediatico anche da noi, quello di Dieta Mediterranea: una dieta molto simpatica e molto americana, peccato che il Mezzogiorno italiano (ed europeo), prima del Piano Marshall e del boom economico, più che d’olio d’oliva e di frumento, campasse, quando campava, di castagne, granturco e grasso di maiale.

Insomma c’è da divertirsi scoprendo in questo libro le radici inventate della cucina tipica: le ipotetiche scorpacciate casearie italiane di Carlomagno, di ritorno a casa dopo la trasferta romana per l’incoronazione imperiale; il parmigiano (dei Consorzi parmensi?) sparso nel paese di Bengodi dal Decameron di Boccaccio; la colonizzazione gastronomica italiana della Francia a opera di Caterina de’ Medici; lo speck neolitico di Ötzi, l’uomo di Similaun; e poi il disincanto sulla pizza, sull’olio, sul vino, sul caffè, sulla pasta, sul pomodoro, ecc. Come nel film di John Ford, L’uomo che uccise Liberty Valance: «Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda». In gastronomia l’Italia assomiglia al West.