Alberto Anile / Welles: il Cinema

Alberto Anile, Orson Welles in Italia, La nave di Teseo, pp. 557, euro 27,00 stampa, euro 13,99 epub

Se c’è un’immagine che perfettamente cattura lo spirito ingannevole della lunga permanenza di Orson Welles in Italia è la celeberrima foto scattata nel 1948 al Caffè Greco di Roma da Irving Penn. Una foto che sembra uno scatto casuale e improvvisato, in una posa da classe scolastica, e che invece fu frutto di un’accurata preparazione da parte del geniale fotografo statunitense: un inganno anche questa, F for Fake, come i giochi di prestigio che il grande Orson amava. La foto cattura un’apparente riunione di amici: il fior fiore dell’intellighentia letteraria e artistica romana, gli intellettuali di via Veneto – letterati come Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Libero de Libero, Sandro Penna, Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati; pittori come Afro, Renzo Vespignani, Orfeo Tamburi, Mario Mafai; scultori come Mirko e Pericle Fazzini, o musicisti come Goffredo Petrassi. In mezzo a loro, come fosse uno di loro, Welles accompagnato dalla sua fiamma dell’epoca, l’attrice Lea Padovani. Se guardiamo più in dettaglio però si nota bene lo sguardo smarrito, quasi timido – da “che ci sto a fare qui?” – dell’istrionico cineasta americano e le facce a lui del tutto indifferenti degli astanti, compresa quella della bella Lea che presto l’indifferenza gliel’avrebbe dimostrata anche nei fatti, rifiutando dopo averlo tenuto sulla corda per lunghi e tortuosi corteggiamenti, la proposta di matrimonio dell’innamoratissimo spasimante e tradendolo con Giorgio Papi, direttore di produzione proprio del film che Welles stava faticosamente girando con lei come protagonista femminile, Otello. Orson fu assai più sportivo del Moro di Venezia, ma Lea perse il ruolo di Desdemona e fu sostituita, a costo di rifare da capo tutte le scene in cui compariva.

Il brillante transfuga di Hollywood, il genio, l’enfant prodige rifugiato come vittima politica del Maccartismo (e soprattutto di un sostanzioso debito per contributi non pagati al fisco statunitense), in Italia non riuscì mai ad ambientarsi, nei sei anni in cui vi risiedette dal ’48 al ’53, non tanto per colpa sua poveretto, ma degli italiani: il marziano a Roma di Flaiano in realtà è lui, Orson (e un po’ anche il re esiliato d’Egitto, Faruk, non a caso con Orson in ottimi rapporti). Un marziano a Roma stupisce il primo giorno, è oggetto di attenzione il secondo, viene tollerato il terzo, ignorato il quarto e spernacchiato il quinto. A quel punto si cerca solo un’astronave per tornarsene a casa. E così fece Welles. L’amore del regista/attore per l’Italia non fu mai ricambiato, gran parte dei critici lo attaccarono e sminuirono la sua opera – per loro fu più l’ex marito di Rita Hayworth che l’autore di Citizen Kane – i produttori non vollero finanziare i suoi film e lo usarono solo come attore, finendo per fargli fare da spalla a Totò (in L’uomo, la bestia e la virtù, escursione pirandelliana di Steno); e se Palmiro Togliatti, che volle conoscere appena arrivato in Italia nel ’48 e con cui condivise una cena in pizzeria, lo definì dopo l’incontro “l’americano più intelligente che abbia conosciuto”, la stampa demolì invece spietatamente i suoi film shakespeariani, Macbeth e il successivo Otello, accusandolo di funambolismo, barocchismo, vuota pirotecnia di effetti, in nome di una presunta superiorità del canone neorealista allora imperante.

Tutto questo e molto altro viene raccontato nell’appassionante volume di Alberto Anile, già edito con successo qualche anno fa e oggi ripubblicato da La nave di Teseo, in versione parzialmente riscritta e aumentata – forse ispirandosi al modello di Citizen Kane – di numerose interviste da prospettive diverse che, tutte, offrono un focus ulteriore sull’inafferrabile oggetto della ricerca: fra queste spiccano, un flirt giovanile (Franca Faldini), un giornalista amico (Alfredo Todisco), uno dei molti direttori della fotografia di Otello  (Alvaro Mancori), la segretaria durante la lavorazione di Otello (Mary Alcaide), un critico a favore (Tullio Kezich) e uno contro (Gian Luigi Rondi), un giovane allievo divenuto grande montatore (Roberto Perpignani). Il libro di Anile attingendo a rotocalchi d’epoca, documenti, interviste, aneddoti e testimonianze dirette, si rivela – pur mai venendo meno l’approfondimento critico, il rigore storico e lo spessore interpretativo – uno dei più divertenti, piacevoli e ben scritti testi di cinema mai pubblicati in Italia negli ultimi anni.

Quella che Anile racconta è la storia triste di un amore non corrisposto: i sei anni durante i quali il grande Orson pensò di trasferirsi permanentemente nel nostro paese, furono una continua frustrazione. Il suo rapporto ambiguo di ammirazione e ripulsa  per l’Italia, è ben espresso dalla memorabile battuta pronunciata da un suo personaggio, il cinico Harry Lime de Il terzo uomo, in una delle scene chiave del grande film di Carol Reed (1949), battuta improvvisata sul set da Welles e non presente nella sceneggiatura originale scritta da Graham Green: “Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Tra le catastrofi fronteggiate da Welles negli anni italiani spiccano una serie di fiaschi e conferenze stampa conflittuali culminate con il clamoroso ritiro di una delle sue opere più faticose e geniali, Otello, dal Festival di Venezia; decine di sceneggiature di film scritte e abbandonate per mancanza di finanziamenti; la massacrante lavorazione “a puntate” dell’Otello, che una volta terminato non ebbe nemmeno il riconoscimento di produzione come film italiano e per poter essere finalmente presentato a Cannes dovette figurare come film marocchino; deludenti ruoli di attore, accettati solo per necessità pecuniarie, che lo relegavano progressivamente quasi al rango di caratterista. Il povero Welles, che pure per reazione ostentava sicurezza coi giornalisti e talvolta assumeva atteggiamenti arroganti e superbi che sempre più gli alienavano le già scarse simpatie, restò dolorosamente un estraneo: eppure aveva perfino imparato l’italiano in modo accettabile ed era riuscito, dopo la débâcle  con Lea Padovani, a sposare finalmente un’italiana, l’altrettanto bellissima Paola Mori (carino l’aneddoto raccontato da Anile: spiaggia di Fregene, a corteggiare la splendida ragazza si presenta l’aitante Walter Chiari; Welles, non ancora quarantenne ma già imbolsito dagli stravizi alimentari, lo prende da parte e con tono accorato gli dice: “Per te è solo un divertimento, per me è la vita stessa”. Cavallerescamente Walter si ritira in buon ordine e da quel momento i due ex rivali diventano ottimi amici, tanto che, qualche anno dopo, Orson gli affida in un suo film, un piccolo ruolo, buffonesco ma prestigioso, che ne sfigura ironicamente la bella presenza: sarà l’uomo col viso di porcello del Falstaff).

Non stupisce dunque il rancore che promana da certe dichiarazioni velenose sull’Italia e sul suo cinema da parte del regista americano: per Welles, Rossellini – satireggiato nel personaggio di Alessandro Sporcacione della sceneggiatura per l’irrealizzato Operation Cinderella – era “un dilettante. I film di Rossellini provano solo che gli italiani sono attori nati e che in Italia basta prendere una macchina da presa e metterci delle persone davanti per far credere che si è registi”; il neorealismo è “una donna spettinata che urla al telefono”; Antonioni “è il pioniere e il padre fondatore della noia come tema artistico. I suoi film sono sfondi perfetti per mannequins di alta moda”; su Fellini è un po’ più generoso “un artista superlativo che ha molto poco da dire”; con Pasolini almeno, quando girò La ricotta, tutto bene: “tremendamente intelligente e dotato”, ma questo avvenne molti anni dopo il ’53 e ormai Welles veniva in Italia solo come turista, la rabbia era smorzata, e comunque, dopo quell’esperienza, rifiutò lo stesso tutti gli altri numerosi ruoli che PPP gli avrebbe proposto.

Welles, sul set di Steno e di Totò (con il Principe, che a mezzo sorriso lo definiva “genio in esilio”, ci fu rispetto e quasi deferenza, sebbene il suo antico, giovane amore, Franca Faldini, fosse diventata ormai la signora De Curtis) non resse più e scappò via abbandonando il film non ancora terminato – e Steno fu costretto a ricorrere a una controfigura per le ultime scene – e il paese d’adozione. Scelse poi un’altra nuova patria mediterranea, la Spagna, e ci si trasferì con la moglie italiana per terminarvi il film iniziato a Napoli, Mr. Arkadin (o Rapporto confidenziale, che dir si voglia) e avviare il suo mai compiuto Don Quixote, attirandosi così ulteriori critiche dai già avvelenati critici marxisti nostrani (come Aristarco) che gli rinfacciarono, tra l’altro, segrete indulgenze con il regime di Franco. Più tardi, usufruendo di uno sconto sui debiti fiscali, sarebbe tornato negli USA per morirci, e avrebbe cambiato moglie sposando la bellissima croata Oja Kodar, conosciuta nel 1961 sul set de Il processo, sua compagna negli ultimi 25 anni di vita. In Italia veniva ormai solo di passaggio, per ruoli occasionali – La ricotta di Pasolini, Tepepa di Petroni, ecc. –, l’amore deluso e tormentato si era estinto proprio quando la critica italiana finalmente lo rivalutava e il suo nome veniva giustamente inserito, anche da parte di chi un tempo lo aveva screditato, nel numero dei sommi maestri del cinema: troppo tardi. Welles, sempre più grasso e ingordo, sarebbe morto a Los Angeles per un infarto nel 1985 a 70 anni. Volle che le sue ceneri tornassero in Europa, non in Italia però ma in Spagna, a Ronda, nella hacienda che fu residenza del torero Antonio Ordóñez, e lì ancora riposano.