Anne Carson, The Albertine Workout, tr. Giulio Silvano, Edizioni Tlon, pp. 175, € 14,00 stampa
Curioso libro, questo di Anne Carson, canadese studiosa di greco antico, e celebrità letteraria schiva e inclassificabile. In Italia è reperibile Antropologia dell’acqua (tradotto mirabilmente da Antonella Anedda, Elisa Biagini e Emmanuela Tandello), pubblicato nel 2010 da Donzelli. Nel 2000 Bompiani pubblicò Autobiografia del rosso, romanzo (o meglio, libro poetico) in cui l’antica poesia greca si unisce a una moderna storia d’amore. Carson è definita da Harold Bloom – noto gigante agguerrito del cosiddetto Canone della letteratura mondiale – uno dei massimi poeti viventi in lingua inglese. Ma non soltanto di poesia occorre parlare a proposito della scrittrice, capace di scorribande profonde e sensuali da Proust a Eschilo e Euripide, passando per Keats e il tango, attraverso racconti saggi e frequentazioni d’eros. Per chi volesse approfondire la conoscenza della poetessa (abito che nel suo caso va decisamente stretto) sono disponibili due numeri della rivista mensile “Poesia” (n. 307, settembre 2015 e n. 325, aprile 2017) dove Patrizio Ceccagnoli non soltanto traduce alcuni passi tratti dalle recenti opere di Anne Carson, ma ne tratteggia un esemplare quadro critico ed esistenziale.
Accertata la ridotta situazione pubblicistica della scrittrice in ambito italiano, grande merito dunque va alla curatrice di The Albertine Workout, Eleonora Marangoni, talentuosa esperta di Proust, e all’editore Tlon che ha deciso di pubblicarlo. In 59 frammenti e alcune appendici il grande amore di Marcel, Albertine, viene sezionata e presa fra le braccia, in senso metaforico e reale, nel pieno dei suoi passaggi nel vasto mondo della Recherche, testimoniandone presenze e assenze e trasformazioni. Con precisione statistica e altrettanto nitide istantanee, l’esplorazione di Albertine, corpo e fantasma, viene attuato da Anne Carson come se tutta la Recherche fosse stesa su un enorme tavolo, e mappata da dotatissima psiche. Non si può non pensare a Beckett, a quel che molti pensano di lui in relazione a Proust, che incarnasse insomma chi aveva capito tutto, indicando nel corpo di Marcel la noia, la sofferenza, insieme alle banalità del quotidiano come biscotti, baci, ipocondrie e disturbi serali.
Carson lo esprime chiaramente, così come espone (con l’abilità e la sagacia di un dardo) i misteri che avvolgono Albertine. Chi è, cosa fa, dove scompare, dove riappare e in che veste, e cosa significa il suo amore, e se esiste. Nei frammenti che compongono il libro, talvolta fatti di una sola frase, sbuca, viva o semi-viva, bruna nella sua corporalità assai sfuggente, probabilmente nemmeno bella, l’Albertine eroina carica di storia e di una contro-storia con cui Proust bestialmente la trafigge. Ma è proprio nella “probabilità” della sua esistenza che Anne Carson s’introduce, in grado di riassumere la verità dei fatti (se non dei sogni e delle visioni) in una manciata di proposizioni che stringono il lettore, o il semplice interessato, al muro. Senza nessuna possibilità di muoversi altrove, o di considerare diversi angoli dell’esistenza e tralasciare la straordinaria sessualità della letteratura.
Barthes applaudirebbe, assieme a coloro che passando per il monumento proustiano vorrebbero baciare in egual modo Albertine e Marcel. Maschi e femmine in un calmo e mistico desiderio, colmo di perplessità. Tutti, almeno quanto Albertine, desiderosi di “sentirsi schiavi”. Così s’espande il mistero dell’avvincente lavoro di Anne Carson, dall’inizio fino alla morte dettata da Proust per la sua eroina, fuori scena e fuori dal desiderio espanso per ogni dove. L’autrice ci ha messo sei anni (ogni mattina, a colazione) per leggere l’intera Recherche. Quanto tempo impiegheremo noi a leggere The Albertine Workout? Sei mesi, sei giorni, sei minuti o tutto il tempo che la vita ci concede? O gli stessi sei anni? Provare è necessario, entrare in questo miracolo, capita una volta nella vita. E come non dare ragione al terribile ed esondante Bloom? Sapendo che “le cose, in effetti, sono perlomeno doppie” (frammento 59, conclusivo, da La prigioniera, p. 362).