In una recensione a Quaderno proibito apparsa sul Corriere della Sera il 12 febbraio 1953, Eugenio Montale snocciolava un curioso giudizio sull’autrice: “La signora de Céspedes, che scrive bene, ha tutto il fascino degli scrittori che scrivono male: e questa è forse la sua involontaria scoperta”. Le diciotto novelle de L’anima degli altri, ristampate per la prima volta ad opera di un editore, cliquot, che per vocazione recupera i “classici mancati”, nascondono l’ammaliante acerbità della prima prova. Nata nel 1911 a Roma, de Céspedes esordisce con il racconto Il dubbio sul Giornale d’Italia: ha appena ventitré anni. Come osserva Loredana Lipperini nella prefazione, “quel racconto le portò fortuna: venne notata e chiamata a collaborare con diversi quotidiani”.
Nel ’35, l’anno dopo, esce l’intera raccolta per l’editore Maglione. Cos’hanno di particolare questi testi? Sin dai loro incipit, di solito brevi e fulminanti, rivelano quel fascino che si allontana da ogni “flaubertismo formale” (per dirla ancora con Montale), guadagnando così un dettato solido, calcareo, senza fronzoli. Si pensi al dinamismo oggettuale nell’inizio de Il tempio chiuso: “Il telefono squillò nel silenzio della casa; i mobili e le cose dormenti, che prendevano alla luce degli abat-jours un contorno indefinito, sembrarono svegliarsi repentinamente”. O alla descrizione icastica di partenza – con climax ascendente e accumulatio – in Il miracolo: “Il paesaggio era grigio, aspro, inaridito, selvaggio: sembrava lo sfondo di un quadro del giudizio universale”.
I temi principali delle novelle sono una fruttuosa anticipazione dei Leitmotive dei futuri romanzi: lo scandaglio psicologico, la sottesa critica sociale, le difficoltà familiari, la tensione allo sgretolamento e al cambiamento, e infine il senso di libertà anticonformistica che si respira attraverso uno stile ricco di scatti sintattici (celebre è la massima di de Céspedes: “Ciò che attraversa il tempo è lo stile. Lo stile è tutto”). Ne viene fuori l’idea del predominio della vita pulsante sulle convenzioni umane, persino sull’arte: paradigmatico, a questo proposito, Il capolavoro – modellato forse antinomicamente su Il ritratto di Gogol’ –, nella triste valutazione dello scrittore Giorgio Landi: “Considerò, allineate nello scaffale preferito, tutte le sue opere: poche, in confronto a tutti i sorrisi di suo figlio che aveva perduto. Si alzò, aprì un volume: erano delle parole, che adorava, ma parole, anzi segni inanimati su di una carta fredda”. Pian piano il protagonista del racconto prende coscienza che il vero capolavoro “che avrebbe vissuto anche oltre lui”, è Enrico, il figlio appunto, e che quindi l’abnegazione, l’aver consacrato la sua esistenza alla scrittura è stato un falso idolo.
Un altro argomento che sarà approfondito con notevoli screziature tonali – segnatamente in Dalla parte di lei (1949) – è l’amore. Disincanto ci offre la storia (in parte sveviana) di Renato che vive nel terso e ossessivo ricordo di Luciana, ex fidanzata capace di sbaragliare qualsiasi altra ragazza. “Quella era la vita!”, sospira l’uomo pensando alla sua storia finita, “a tempi nei quali magari si credeva tormentato e dispensava nell’incomprensione della gioia le sue ore migliori”. Quando però inaspettatamente Luciana si fa risentire e si incontrano con un pretesto nell’appartamento di lui, il simulacro della reminiscenza non è più tale e la donna scende dall’altare a cui l’estenuante lavorio della memoria l’aveva consegnata: “Era inquieto e deluso perché, certo senza capirlo, ella aveva con la Luciana di oggi distrutto inesorabilmente l’incanto di quella d’allora”. L’esordio di Alba de Céspedes è a tratti stupefacente e ha il pregio di riportare alla nostra attenzione un’autrice ingiustamente accantonata.