Sembrerà strano, ma Storia della filosofia è un libro che andrebbe letto prima di tutto da chi non ha il minimo interesse per la filosofia, o ritiene che quest’ultima sia qualcosa di assolutamente distante dalla propria vita quotidiana e sostiene – come molti di noi indubbiamente fanno – di non “avere” una filosofia. Al contrario, Alan Woods – che, non a caso, è un marxista militante prima che saggista – suggerisce di partire dalla consapevolezza che tutti noi, volenti o nolenti, siamo influenzati dalle idee prevalenti in una certa società, in un dato momento storico: l’intento, allora, è prendere coscienza di come queste idee si sono sviluppate e sottrarre la filosofia alle sue torri d’avorio per restituirla al suo ruolo degli albori, quello cioè di consentire agli esseri umani di «spiegare il mondo senza l’intervento di forze sovrannaturali” attraverso “comprensione scientifica della natura e di noi stessi».
Non aspettiamoci però di trovare una presentazione enciclopedica di duemila anni di sviluppo della filosofia; anzi, vi sono anche delle lacune, per esempio per quanto concerne le filosofie dell’Asia orientale, che l’autore ha deciso (non sbagliando) di omettere perché la vastità e l’importanza del tema avrebbero richiesto come minimo un altro volume. Scritto non con la pesantezza del manuale accademico ma con lo stile snello e trasparente dell’attivista, il libro punta invece a offrire una prospettiva: la storia della filosofia è infatti letta come un costante corpo a corpo tra idealismo (il mondo come prodotto dell’Idea, cioè la materia come prodotto del pensiero – o di Dio) e materialismo (il pensiero come conseguenza ed elaborazione della materia), declinati a seconda delle diverse scuole filosofiche. L’ipotesi è che tale storia possa essere spiegata come un graduale processo volto ad afferrare l’essenza dell’atto del pensare e il suo rapporto con la realtà materiale che ci circonda. Processo, anch’esso, dialettico: nel quale cioè ciascuna scuola e sistema di pensiero nega la precedente ma ne assorbe il nocciolo razionale, sviluppandolo in qualcosa di nuovo. In questo senso, lo scopo di Woods è respingere l’idealismo di ritorno delle filosofie postmoderniste (da Lyotard alla galassia del post-strutturalismo) che rifiutano la possibilità stessa di cogliere la verità (o, detta hegelianamente, l’essenza delle cose).
Non sfugge che un lavoro come questo, impegnato, pensato più per i collettivi di attivisti che per le aule universitarie, ha senso oggi per come si raccorda a dibattiti piuttosto scottanti: ad esempio (e scusate se è poco), se le oppressioni esistenti derivano dalla cultura (e quindi possono essere sconfitte agendo su linguaggio, mentalità, educazione, ecc.) o se sono generate dalle condizioni materiali (che si riflettono a loro volta nella cultura sedimentata in un certo periodo storico); domanda che è inseparabile dalla questione squisitamente filosofica del rapporto tra pensiero e materia. Così come è la risposta stessa (anch’essa, militante) offerta da Woods a ricordare come il mondo apparentemente lontano della filosofia è in realtà alla base del nostro pensare e del nostro agire: «Per cambiare le persone è necessario cambiare le loro condizioni di esistenza».