Jonathan Giustini / Al divino amore, in cerca di Cabiria

Jonathan Giustini, Fellini inedito, Edizioni Interno4, pp. 117, euro 12,00 stampa

La storia comincia con il ritrovamento casuale di 65 vecchie fotografie, dentro un cassetto, in un appartamento di Montesacro, a Roma.  È intorno a queste immagini in bianco e nero, mai viste prima, che Jonathan Giustini costruisce un piccolo, prezioso libro, Fellini inedito, che ha il pregio, tra gli altri, di partecipare alla celebrazione del centenario della nascita di Federico Fellini scegliendo una prospettiva apparentemente marginale, in realtà fornendo un tassello utile a documentare una fase di transizione fondamentale nell’opera del regista.

Le fotografie raccontano il sopralluogo di Federico Fellini al Divino Amore per la preparazione di uno degli episodi più importanti del suo nuovo film, Le notti di Cabiria: il pellegrinaggio delle prostitute al santuario. Siamo nel 1956, dietro la macchina fotografica c’è Paolo Nuzzi, assistente di Fellini che lavora con Federico dai tempi di La strada, del 1954, e che continuerà ad affiancarlo ancora per molti anni, fino al rituale allontanamento subito a turno da tutti i collaboratori storici del regista. È nella sua vecchia casa, dove oggi vivono la vedova Antonia e il figlio Giordano, che l’autore del libro ha ritrovato le fotografie.

Il santuario della Madonna del Divino Amore si trova sulla via Ardeatina, a pochi chilometri dalla città. Sorge nel 1744, a seguito di un miracoloso intervento di Maria che, vegliando da un affresco dipinto a cavallo tra XIII e XIV secolo, salva un viandante dall’attacco di un branco di cani randagi. Dalle pareti della torre di Castel di Leva, l’effigie sarà poi trasferita nell’edificio consacrato al suo culto. Ampliato in varie fasi successive, soprattutto nel corso del Novecento, il santuario è meta di pellegrinaggi e di richieste di grazia che a Roma, nel tempo, sono diventati proverbiali nel linguaggio popolare. Il massimo momento di gloria per la Madonna del Divino Amore sarà quando, il 4 giugno 1944, Pio XII, “con i romani tutti”, le fecero voto per scongiurare la distruzione della Città Eterna.

La galleria fotografica del sopralluogo felliniano è un documento notevole: registra lo svolgersi di un affollato pellegrinaggio in tutte le sue varie fasi, dall’arrivo della processione alla catena di montaggio delle confessioni arrangiate in postazioni di fortuna all’esterno, le code all’ingresso, l’interno del santuario, chierichetti desichiani e giovanotti pasoliniani, le comunioni di massa, i pranzi al sacco, i bambini che giocano, le fraschette con i fiaschi di vino sui tavoli, il mercato, la siesta nel pratone, i ciclisti. L’estetica è quella rigorosa, nuda e minuziosa del neorealismo, l’occhio attento a fissare con discrezione le varie situazioni, a isolare i personaggi, a collocare le folle dentro il contesto. Anche se qua e là spuntano azzimate famiglie borghesi, la festa è soprattutto popolare come testimoniano i volti e le pose. Sembra una fiera domenicale dell’era pre-consumistica, c’è il sanguigno e allegro piacere della gita fuori porta ma anche una compostezza rispettosa della sacralità del luogo. Fellini appare in quattro scatti, sull’altare accanto a Don Umberto Terenzi, sembra che stia facendo domande al religioso e che ascolti con molta attenzione le sue risposte.

I motivi di interesse di questo racconto per immagini non si esauriscono però con l’accesso a uno splendido reportage fotografico. Per gli studiosi e per gli appassionati felliniani ci sono indizi che è forse interessante approfondire.

Le notti di Cabiria segna il definitivo commiato di Fellini dal Neorealismo, un commiato senza ritorno. Il regista, come è noto, si è formato nella temperie del Neorealismo, è stato amico e collaboratore di Roberto Rossellini, ha scritto molte sceneggiature con il suo sodale Tullio Pinelli. La ricerca sul campo, che diventa una sorta di inchiesta preliminare sull’ambiente sociale e fisico in cui si svolgerà la storia, costituisce, per il cinema neorealista, una fase fondamentale nella costruzione e definizione della sceneggiatura. Senza un programma comune che stabilisca la strada da percorrere, i registi e gli sceneggiatori avvertono all’unisono la necessità di conoscere dal vivo il contesto in cui si svolgeranno le storie da raccontare. La coincidenza tra gli ambienti e i luoghi immaginati e la scelta di esterni reali – e spesso anche di interni – rende il momento della documentazione parte integrante del processo creativo: il sopralluogo si sovrappone alla scrittura e la scrittura alle riprese del film in un reciproco e continuo scambio di suggestioni. Racconta Pinelli: “Ci si rifiutava di lavorare a priori senza avere l’ispirazione della scoperta imprevista, di cose che si scoprivano sul posto e che suggerivano una scena, una situazione, un personaggio, una diversa configurazione della storia stessa che si era immaginata”. Quando lavorano insieme sulla sceneggiatura di Senza pietà (Alberto Lattuada, 1948), Pinelli e Fellini si travestono da carbonari per visitare la famigerata pineta di Tombolo, ricettacolo di contrabbandieri, disertori, prostitute, allo scopo di raccogliere materiale per il film. È solo la prima avventura: ci sarà poi Trieste (“vi entrammo fra i sacchi di caffè di un autocarro compiacente, dopo aver vagato sul Carso trascinandoci dietro valigia e macchina da scrivere”), la Toscana del petrolio per un film di Camerini che poi non si farà, Genova e Torino con Gianni Puccini per esplorare il sottobosco della tratta delle bianche che sarà poi raccontato in Persiane chiuse (Luigi Comencini, 1950). Durante la preparazione di Cabiria, per mesi Fellini visita di notte la Passeggiata archeologica, le latterie di borgata, gli argini del Tevere, portandosi dietro a turno i suoi collaboratori, dal fido Pinelli allo scenografo e  costumista Piero Gherardi, e talvolta anche un giovane scrittore che si chiama Pier Paolo Pasolini. Ma il suo sguardo possiede ora qualcosa di diverso, non è più lo sceneggiatore-reporter di cui parla in un articolo Gianni Puccini raccontando come questi, affidando “il suo lavoro preliminare innanzitutto a una minuziosa inchiesta”, si sia sostituito, nei gloriosi anni del Neorealismo, allo sceneggiatore di mestiere, rinchiuso con il solo conforto della fantasia nella solitudine del suo studio. Più che la mimesi, Fellini si reca sul posto a cercare suggestioni, a odorare la fauna dei pellegrini, a guardare quello che il reportage non può vedere, a cercare qualcosa che è dentro di sé almeno quanto intorno a sé.  In questo scarto si misura la transizione in atto: presto l’autore finirà per chiudersi nell’amato teatro di posa n. 5 di Cinecittà dove può riscostruire a sua immagine l’esistente e l’inesistente; non avrà più bisogno di ricorrere a sopralluoghi, quello documentato in questo libro potrebbe essere simbolicamente l’ultimo.

Nei suoi primi film Fellini si rivela al tempo stesso continuatore e innovatore, forse eversore, rispetto all’ortodossia del Neorealismo, costruita in realtà più dai critici e dagli storici che dagli autori i quali, notoriamente, sono stati piuttosto dei cani sciolti, con personalità e poetiche anche molto diverse. “La sua innovazione” – scriverà Pasolini prima dell’epocale rottura ai tempi della Federiz – “è tanto più violenta ed esplosiva quanto più è inconscia e non impegnata”. Il confronto tra le fotografie dei sopralluoghi riportate alla luce in Fellini inedito e la corrispondente sequenza del film è eloquente, gli eventi narrati sono praticamente identici, ma c’è qualcosa di impalpabile che apre un baratro tra le due visioni, è quella che Pasolini definirà “la qualità metafisica del contrasto” contenuta nel cinema felliniano. Pur attento a cogliere dettagli e notazioni che poi si ritrovano trasfigurate nelle immagini cinematografiche, il regista aggiunge al racconto un pathos, un’escalation che da gioiosa si fa quasi cupa, espressionista, densa di mistero, attraversata da una paura a tratti insostenibile, fino alla drammatica agnizione con il vecchio storpio che crolla davanti all’altare dopo aver deposto le stampelle. Una situazione non presente nella sceneggiatura che si arresta su Cabiria e Wanda davanti all’immagine sacra; le successive inquadrature 355, 356 e 357, che chiudono la scena all’interno del santuario, riportano la nota: “(a disposizione)”, ovvero sono vuote, libere di intercettare la strana alchimia del set con i suoi inviti “magici”. Davanti al bivacco nel prato antistante, giunge infine la rabbiosa e desolata constatazione di Cabiria: “Non siamo cambiati!”.

Le notti di Cabiria è l’addio ai “ruderi, le chiese, le pale d’altare, i borghi abbandonati nell’Appennino”. Nei cieli di Roma già si intravede un Cristo Redentore appeso a un elicottero. L’episodio del “miracolo” nella Dolce Vita non ha più niente di arcaico e di misterioso, è già la cronaca isterica di un set esposto alla luce accecante dei riflettori e dei flash, secolarizzato e vorticoso, visitato da una compagnia di giro già pronta a correre sul luogo di un’altra attrazione.

Ma Fellini inedito non è solo un libro di fotografie. Le immagini sono precedute da un denso testo di Giustini che rifugge da ogni tentativo di classificazione. Non è un saggio critico, non è una pagina di storia del cinema, non è un pezzo di colore eppure è tutto questo e anche qualcosa di più. Con uno stile personale già sperimentato nel singolare ritratto dello sceneggiatore Ennio De Concini dato alle stampe lo scorso anno (Chi si firma è perduto. Ennio De Concini; memorie di un fallito di successo, Iacobelli Editore), l’autore apre una sorta di passaggio segreto per accedere a un mondo che non è più, abitato da storie e personaggi straordinari che non sono più, tra brandelli di ricordi, appunti di storie, elisioni, lampi, divagazioni. Come in uno scartafaccio per cinque diversi libri ancora da scrivere ci sono dentro, tra le altre cose, i frammenti di una biografia dell’inquieto Paolo Nuzzi, la storia della strana attrazione tra Fellini e Pasolini, le vicende del Divino Amore, “santuario di campagna” e “di popolo”,  la genesi del personaggio di Cabiria, il racconto quasi horror di come la maldestra imbalsamazione del Pastor Angelicus Pio XII si trasforma in un macabro show, la malinconica fuga di Ennio Flaiano dalla solitudine e dal dolore, l’avventurosa cronaca del pioniere Don Umberto Terenzi, il sacerdote a cui fu affidato il santuario, che ne curò la sistemazione e ne incrementò la funzione sociale, il prete venuto dal passato che registra le proprie omelie sul registratore Geloso e che accoglie a braccia aperte Fellini e il cinema.

Fellini inedito si chiude con tre bonus: 16 fotografie inedite dai set felliniani, ancora dagli archivi di Paolo Nuzzi, qui presente alle spalle del regista, accanto a Giulietta Masina o in cima a un dolly, e due brevi “interviste ritrovate” a Manuel Vàzquez Montalbàn e a Manoel De Oliveira che parlano del “loro” Fellini. E ancora, come “ghost tracks”, due piccole fantasie intorno al riminese imbastite come interviste “immaginarie” ad Akira Kurosawa e a Ingmar Bergman.

Sono molti i libri sul cinema che continuano ad arrivare in libreria. Alcuni sono francamente inutili, altri coltivano incerte ambizioni accademiche, altri ancora sono velleitari e noiosi, pochi sono davvero benvenuti. È il caso di Fellini inedito, un bel modo di raccontare il cinema, arte imperfetta ed evanescente, scritta sulla luce, raccontata a voce, dimenticata per sbaglio in un altro secolo.