Valerio Aliolli è stato seguito da PULP Libri fin dai suoi esordi, ed era perciò inevitabile che lo invitassimo a partecipare alla nostra rubrica Paragrafi d’autore. Il fatto poi che abbia scelto come modelli di scrittura tre paragrafi di Natalia Ginzburg, che ancora mancava alla nostra galleria di ritratti, non può non farci contenti – non bastasse questo, sono passi molto intensi sul mestiere dello scrittore. Cosa dunque chiedere di più?
La nostra personale felicità o infelicità, la nostra condizione terrestre, ha una grande importanza nei confronti di quello che scriviamo. Ho detto prima che uno nel momento che scrive è miracolosamente spinto a ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l’essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria. (pag. 78)
C’è un pericolo nel dolore così come c’è un pericolo nella felicità, riguardo alle cose che scriviamo. Perché la bellezza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, d’ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d’oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale. (pag. 79)
Questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue dalle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta sempre di darci retta quando abbiamo bisogno di lui. (pag. 80)
(Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi – Edizione ET Scrittori; Prima Edizione «Saggi», 1962)
C’è una frase rivelatoria, nel primo di questi paragrafi. Una frase che apparentemente è scorretta. “Ho detto prima che uno nel momento che scrive è miracolosamente spinto…”. Sono stato tentato di correggerla anche adesso, che la ricopiavo. Di mettere: “… nel momento in cui scrive…”. Ma poi ho pensato che più che un errore si tratta di un allargamento semantico, magari involontario ma effettivo, anche alla luce di quanto viene detto nel terzo paragrafo: il mestiere di scrivere visto come un padrone, come altro da sé. E allora forse “uno nel momento che scrive” è una frase che va intesa anche come se il soggetto, per un istante, slittasse dalla parola “uno” alla parola “momento”: è il momento che scrive, non l’uno. L’uno è sottomesso, per un istante, al momento, che è altro da sé. La scrittura, insomma, è qualcosa che attraversa lo scrittore, che non ne è pienamente padrone. Un po’ come la vita, che arriva, ci attraversa e se ne va, senza che possiamo fare più di tanto per trattenerla, per sottometterla, per piegarla ai nostri desideri.
La Ginzburg è così: sembra sempre che parli di cose semplici in modo semplice, e poi ti affacci e scorgi l’infinito.
Valerio Aiolli è nato a Firenze nel 1961. Il suo primo romanzo, Io e mio fratello (E/O, 1999) ha vinto il Premio Fiesole, è stato candidato al Premio Strega ed è stato tradotto in Germania e Ungheria. Con lo stesso editore ha pubblicato Luce profuga (2001) e A rotta di collo (2002). Sono seguiti Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007), Il sonnambulo (Gaffi, 2014), Lo stesso vento (Voland, 2016), Il carteggio Bellosguardo (Italo Svevo, 2017) e Nero ananas (Voland, 2019), candidato all’edizione in corso del Premio Strega.