Ziya è ancora un bambino quando assorbe i valori che domineranno la sua vita. Nutre una grande ammirazione per il fratello più grande, Arif, il suo faro. Arif è un personaggio importante all’interno di una minoranza circassa di un impero ottomano agli sgoccioli, in cui bande etnico/culturali/criminali imperversano per Istambul. Ma chiamare Arif un semplice poco di buono è riduttivo: Arif rappresenta un modo di vivere. È un mondo di uomini, in cui la violenza si accompagna al coraggio disperato di provare sé stessi, un coraggio che è più importante della vita. Essere disonorati o ridicolizzati è peggio della morte. “Essere un uomo orgoglioso” come il fratello è l’imperativo categorico che guida la vita di Ziya: non c’è padre né madre, solo l’enorme figura del fratello maggiore. Quando Arif viene ucciso da un altro criminale e il fratello Hakki mostra esitazione, per Ziya, ancora adolescente, la vendetta non una scelta, ma l’unica cosa che è possibile fare.
I dadi mette in atto un bildungsroman che è in realtà il suo contrario, in cui la crescita è irrimediabilmente minata dall’infanzia. Ziya bambino vive in un mondo sull’orlo dell’estinzione, un mondo di splendidi eroi spregiudicati e violenti nell’impero ottomano allo sfascio. Ma un bambino non può certo capire i cambiamenti epocali della storia e come questi influenzino gli individui. L’immaginazione di Ziya bambino è catturata da un’immagine fulgida, tanto da rimanerne imprigionato, da staccarsi dalla realtà e divenire più importante della morte e della vita, e che finirà per dominarlo. In questo senso, i dadi ne sono il simbolo perfetto. Il vizio dell’azzardo è per Ziya come la sua vita: non importa vincere-vivere o perdere-morire; è in pace solo mentre i dadi girano, dopo averli lanciati e prima che si fermino. Ziya vive solo nell’impeto.
Tutto ciò che vive è assorbito dalla logica dell’onore e dalla sua stessa immagine negli altrui occhi. La sua ossessione lo separa dal mondo. tanto che è incapace di capire la paura, la prudenza, le vite degli altri uomini, da bambino e da adulto, nella società civile come in prigione. Non a caso, a mettere in dubbio i rapporti di Ziya con il mondo sono solo le donne, che abitano un sistema di relazioni diverse, non basate sulla forza e la violenza. Sono gli unici veri scambi umani del romanzo, le uniche occasioni in cui Ziya si sente impacciato o disarmato, in cui instaura un dialogo o tenta di capire un universo interiore diverso dal suo.
Ahmet Altan scrive del protagonista che, se fosse nato altrove e in un altro ceto sociale, sarebbe stato un nobile: duelli al posto delle vendette, lealtà di casata al posto di patti fra bande. Il paragone è decisamente calzante. Ziya nasce in un sistema di fedeltà, vendette, orgoglio e onore che sta scomparendo, in un impero che conta i suoi giorni in mezzo a un caos crescente. Proprio come un vecchio nobile, Ziya è separato in un modo intangibile ma molto reale dal resto dell’umanità, e come un nobile di inizio Novecento assiste alla distruzione delle gerarchie e dei valori che regolavano la sua esistenza, eppure non può vivere diversamente. Ma Ziya non è un decrepito marchese coi giorni contati, è un bambino nato già intrappolato dalla storia e dal sogno di altri. Altan è un giornalista e scrittore di grande fama in Turchia, anche per le controversie che lo circondano e che gli sono costate un arresto per motivi politici. I dadi è stato scritto durante la detenzione, e ne porta le tracce nelle soffocanti descrizioni delle celle e della vita senza tempo dei condannati.