In questo tempo apatico in cui serpeggia una rassegnata sfiducia nei confronti delle istituzioni, recuperare quelle favole antiche che con accenti drammatici e icastici illustrano la nascita della legge equivale forse a restituire senso e valore al proprio ruolo di cittadini, a risignificare in una certa misura il dibattito pubblico intorno ai nodi del diritto, alle sue evoluzioni, alle sue negazioni, e dunque alla sua necessità. Incoraggia riflessioni di questo tipo la lettura di Storia mitica del diritto romano, a cura di Aglaia McClintock, un saggio specialistico a più voci che al rigore della ricostruzione storica associa una tensione costante verso i temi universali che riguardano l’umano e le sue irrisolte contraddizioni.
La sete di racconto e la potenza simbolica dei luoghi sono le necessarie premesse del discorso centrale sul ius e svolgono per questo un ruolo tutt’altro che secondario nel testo: veri e propri serbatoi di memoria, narrazioni e geografie si impongono nell’immaginario comune con la loro incisività eterna; in un viluppo inestricabile, il metaforico e il reale ammantano così l’esistenza della collettività e, grazie alla tradizionalità e alla significatività che li contraddistinguono, vengono recepiti e accolti nel patrimonio culturale, come garanzia di identità e promessa di futuro.
Ma se i luoghi costituiscono l’approdo dell’avventura, il momento di pacificazione, il monumentum che racchiude in sé memoria e monito, i racconti sono immancabilmente accomunati da un segno inquietante: la violenza, il sangue, la tragedia. Come le fiabe più crudeli, queste leggende insegnano che ogni equilibrio è precario: basta poco perché l’ordine sia rovesciato; da qui deriva la necessità che la civitas si doti di un suo ius capace di garantire al cittadino un’esistenza che si svolga in un mondo regolato dal diritto. A partire da questa cifra di brutalità e ferocia, osserva McClintock, “si snoda l’exemplum che finirà per dare vita all’istituzione. […] E puntualmente insieme alla violenza si riafferma la supremazia della norma”.
Il volume è impreziosito dai contributi di studiosi notevoli: Maurizio Bettini riflette sull’istituto giuridico del matrimonio, cui si giunge dopo un’azione di prevaricazione, il celebre ratto delle Sabine, che porrà le basi per la fine della guerra e costituirà il preludio alla progressiva inclusione del nemico nella società romana; a un’uccisione e a un sacrificio purificatore è poi dedicato il testo di Cristiano Viglietti, che ricorda come la nascita del Foro Boario, luogo di scambio commerciale tra cittadini e stranieri, fosse legata alla vicenda mitica di Ercole; Luigi Garofalo, dal canto suo, ripercorre la storia dell’Orazio sororicida (eroe superstite nella contesa contro i Curiazi che non aveva esitato a uccidere la sorella, indignato dal pianto di costei per la morte del fidanzato nemico) e solleva interrogativi pregnanti intorno al primo processo penale celebrato nell’antica Roma; Graziana Brescia e Mario Lentano rintracciano, nel suicidio di massa dei plebei (impiccatisi in segno di rivolta verso Tarquinio il Superbo che li aveva costretti al degradante compito di costruire cloache) e nel conseguente ordine del re dispotico di inchiodare i cadaveri alla croce, l’origine della consuetudine di considerare un’infamia l’atto di darsi la morte, e del divieto di sepoltura per chi compie il suicidio; con Carlo Pelloso si giunge all’inizio della repubblica e alla vicenda di Bruto, il console che fece uccidere i propri figli, congiurati che con il loro agire avevano messo in dubbio la validità del ius; Gianluca De Sanctis, nel suo contributo, spiega perché l’elaborazione delle XII Tavole, la prima legge scritta, sia legata nella leggenda a un legislatore corrotto e criminale – “dove il sistema pubblico fallisce, il sistema domestico è in grado di supplire”.
Con un trickster, un demiurgo imbroglione che scompiglia l’ordine costituito per spalancare un nuovo orizzonte di possibilità, si chiude il ricco volume: è McClintock a consegnare ai lettori il racconto conclusivo, dedicato a Gneo Flavio, lo scriba che rubò il diritto, ovvero “il libro delle azioni processuali dall’archivio dei pontefici, che detenevano il monopolio sul ius e sulla sua interpretazione, per darlo al popolo”, garantendo così l’accessibilità a un sapere fino a quel momento appannaggio di pochi e determinando, con l’avvento di giuristi laici, l’inizio della letteratura giuridica scritta.
Talvolta, affinché la società vada avanti nel cammino che porta il nome del progresso, è necessario che l’ordine venga turbato, anche solo per poco; il superamento dei limiti deve esortare a un ripensamento collettivo e preludere a una nuova armonia, sotto l’egida della Concordia, per smascherare pose acquisite e ipocrisie tollerate, nel segno intramontabile del mito che sa chiarire lo sguardo.