È alla luce di questa possibilità/potenza-di-non/im-potenza rispetto al mondo a cui tutti siamo consegnati che Agamben intraprende a metà degli anni Novanta il suo scavo nell’archeologia del potere forse sollecitato dall’uscita recente di un saggio di Negri sulle alternative del moderno centrato sul concetto di potere costituente[1]. Anche nel suo caso si tratta di un viaggio nella modernità senza la compagnia però delle folle di livellatori, sanculotti, operai e quant’altro, ma della sola «nuda vita», presentata con esempi letterari kafkiani: quello della vita vissuta nel villaggio ai piedi del Castello e quella di Josef K. nel Processo. Ma potremo anche pensare al contadino in pausa fino a morirne «Davanti alla legge»[2] o al condannato «Nella colonia penale»[3]. Ma resta Bartleby, che continua a non scrivere “nient’altro che la sua potenza di non scrivere”[4], la figura di riferimento. È alla luce di questo doppio non che Agamben elabora la sua risposta a Negri[5]. Se gli riconosce il merito di aver abbandonato sul tema il terreno tradizionale della ricerca – quello della scienza giuridica à la Kelsen e Schmitt – gli rimprovera di non essere stato altrettanto coerente nel ripensarlo in chiave ontologica. Certo, Negri è convinto di aver elaborato un nuovo paradigma del potere costituente come di una potenza dinamica e creativa “che scardina ogni equilibrio preesistente e ogni possibile continuità”[6], recidendo una volta per tutte il nodo che lo unisce al potere sovrano nel mentre in questione è proprio questa relazione che lui in verità non recide per cui il suo paradigma resta di fatto ancorato a un’ontologia fondata sul primato dell’atto. Il primo passo nella giusta direzione sarebbe allora quello di invertire l’ordine della relazione: che la potenza non preceda, ma segua il suo atto.
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A spiegare bene questa inedita relazione, decisiva per Agamben finanche a conclusione della sua decennale ricerca[7], è per l’appunto Bartleby. La sua storia ci viene raccontata da un avvocato-magistrato, suo datore di lavoro. Figura scialba e incurabilmente perduta, un mulo come copista, Bartleby vive un rapporto di lavoro che è di sfruttamento ma anche di servitù volontaria. Ma questo rapporto è solo un aspetto della relazione tra i due perché lo scrivano ha anche fissato la sua dimora in ufficio sì da confondervi vita e lavoro. Un esempio di ciò che Agamben chiama inclusione della nuda vita nella sfera del potere sovrano. E Bartleby è questa nuda vita. Abbandonato a se stesso, immerso nella sua tremenda solitudine, lo sguardo attonito a fissare per ore davanti alla finestra del suo ufficio un cieco muro di mattoni, nulla rivela di sé, né luogo e anno di nascita, né trascorsi di vita e di lavoro; niente, meno di nulla. In una parola, un uomo senza contenuto[8]. La sola difesa accampata contro il potere sovrano, il ripetuto, insistito, inossidabile «avrei preferenza di no» che presto contagia gli altri dell’ufficio rimanendo attaccato anche alla loro lingua. Ma Bartleby è nuda vita anche per un altro motivo, che presto è allontanato dall’ufficio e dal lavoro e relegato in una prigione senza una precisa accusa. Agamben per descrivere questo paradosso di un’inclusione che è anche esclusione, di un’innocenza che è anche colpevolezza, ricorre ai due concetti di homo sacer, figura del diritto romano arcaico, e di bando, nella duplice accezione di esclusione (il bandito fuorilegge) e di comando (scacciare, esiliare)[9].
Inutile domandarsi quanto sia tornato utile a Bartleby organizzare la sua strategia in quel modo e quanto efficace possa rivelarsi per l’oggi quell’ «avrei preferenza di no». Una domanda che ci ricaccerebbe dentro il pensiero politico tradizionale.
Gli è che il problema è un altro. Ricordiamolo: “pensare l’ontologia e la politica al di là di ogni figura di relazione”[10], la stessa che stringe in un solo nodo potere costituente e potere costituito. Allora, in cosa ha sbagliato Bartleby che quel nodo non ha sciolto? Cosa non ha funzionato nel suo diniego? Eppure il suo comportamento non è paragonabile a quello di Josef K. e a quello di K., versioni kafkiane della nuda vita. Costoro hanno sbraitato, urlato, cercato in tutti modi di uscire dalla zona di indifferenza in cui sono cacciati per poi morire della/nella stessa solitudine di Bartleby o perdersi strada facendo. I tre hanno reagito ognuno a modo suo a una condizione di partenza uguale, quella dell’ab-bandono (dal datore di lavoro, dalla Legge, dal castello) ma nessuno dei tre è riuscito a sottrarsi alla “forza, insieme attrattiva e repulsiva”[11], che lega assieme in un nodo gordiano nuda vita e potere. E questa forza è il bando che alla fine stritola chi finisce per incagliarsi tra i suoi scogli. Per tutti e tre, la stessa défaillance. Il sospetto, nel caso di Bartleby, è che abbia ragione il suo datore di lavoro quando dice che la sua è stata solo una passiva resistenza[12], una re-azione sempre uguale a ogni ordine ricevuto. Insomma, un botta e risposta in un gioco senza fine, un confronto reso possibile dal fatto che le due forze a confronto (vogliamo chiamarle potenze?) non sono affatto dissimili per quel loro transitus ad actum. E quella che Bartleby mette in campo è una potenza troppo debole per sciogliere il nodo. Avrebbe dovuto trasformarla fin da subito, e non lo ha fatto, in una potenza destituente[13]. Bartleby però non è Paolo che neutralizza e rende inoperante la legge senza abolirla[14] e neppure il cavaliere che sale in groppa al suo cavallo deciso a lasciarsi alle spalle tutto e tutti.
[1] A. Negri, «Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno», SugarCo Edizioni, Varese 1992.
[2] «Racconti», cit. pp. 238-239.
[3] «Racconti», cit., p. 283.
[4] «La comunità che viene», cit., p. 27.
[5] «Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita», cit., p. 51.
[6] «Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno», cit., p. 18.
[7] Così in «L’uso dei corpi», Neri Pozza Editore, Vicenza 2014, p. 337: “Il paradosso del potere costituente è, infatti, che esso, per quanto i giuristi ne sottolineino più o meno decisamente l’eterogeneità, resta inseparabile dal potere costituito, con cui forma un sistema”.
[8] G. Agamben, «L’uomo senza contenuto», Quodlibet, Macerata 1994
[9] «Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita», cit., Parte seconda.
[10] Ivi, p. 55.
[11] Ivi p. 123.
[12] «Bartleby lo scrivano», cit., p. 16.
[13] Per una teoria della potenza destituente in «L’uso dei corpi», cit.
[14] «L’uso dei corpi», cit., pp. 345-346.